Gaza e fascismo. La sinistra non parla al Paese

Non è demagogico imputare alla sinistra una lontananza siderale dal suo vecchio elettorato, i lavoratori, abbandonato per i figli neolaureati della borghesia

Gaza e fascismo. La sinistra non parla al Paese
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Se l'Italia fosse una immensa università o uno sterminato centro storico, la sinistra vincerebbe tutte le elezioni con il cento per cento dei voti. Invece perde a ripetizione. Ultima sconfitta: le Marche, al termine di una campagna elettorale lunare, interamente giocata sulla strage di Gaza e il fascismo incombente. Pare ovvio che non siano due temi da elezioni regionali. D'altronde, c'è da capire la sinistra. Non solo vive su un altro pianeta ma ha anche pochissime carte da giocare, visto che il campo, più che largo, è santo. Quindi tanto vale buttarsi su cose che mettono d'accordo tutti i partiti, anche se non interessano, in questa occasione, i cittadini preoccupati per la sanità, l'istruzione, i mezzi di trasporto, la raccolta dei rifiuti. Così è stata una doccia fredda scoprire che i temi del politicamente corretto perdono presa a mano a mano che ci si allontana dal centro storico. Certo, viviamo immersi nella cultura woke. Ma nelle periferie non sanno neppure cosa sia e ne prendono solo le parti convenienti: il vittimismo, ad esempio. Altre parti, come la parità dei sessi, non vengono neppure prese in considerazione.

In quanto a Gaza: scommettiamo che tutti gli elettori marchigiani siano preoccupati o almeno sensibili ma certamente non votano il governatore della Regione pensando a quello. Senza contare che, anche in questo caso, gli eccessi e i cortei sono una cosa molto diversa da ciò che credono gli opinionisti. Sono pro Gaza, contro Israele e anche contro, nell'ordine, le forze dell'ordine, cioè lo Stato, la democrazia, la laicità delle istituzioni. Non serve la laurea in sociologia, basta osservare e ascoltare gli slogan.

Ieri, quotidiani d'area, come Repubblica, rimproveravano, a Schlein e soci, di essere incapaci di individuare le necessità dei cittadini e di metterle al centro di un programma elettorale. Rimprovero giusto, però da che pulpito Come se gli stessi editorialisti non avessero passato gli ultimi anni a spendere paragoni grotteschi con il Ventennio, a rampognare Donald Trump manco fossimo in Ohio, a buttare in ideologia (marcia) la immane tragedia mediorientale, a sostenere flottiglie più che altro dannose alla causa, a ignorare il clima di scontro e intimidazione fisica nelle periferie (oddio, in molte città non solo nelle periferie).

Non è demagogico imputare alla sinistra una lontananza siderale dal suo vecchio elettorato, i lavoratori, abbandonato per i figli neolaureati della borghesia, talmente abituati al privilegio da non accorgersi neppure più di essere cresciuti e aver vissuto in un altro mondo rispetto al resto della società. No, la lontananza delle élite e il declino dell'istruzione universitaria, sempre più incline a tollerare (se non a promuovere) l'intolleranza, sono problemi noti da tempo, diciamo almeno dagli anni Ottanta. Che fosse una sciagura abbandonare i pilastri dell'Occidente per abbracciare il relativismo decostruzionista è scritto a chiare lettere in un saggio come La chiusura della mente americana di Allan Bloom, professore all'università di Chicago: uscì nel 1987 In Italia, l'involuzione dal rosso al rosa della sinistra radicale è stata spiegata in tutte le sue premesse e conseguenze da Augusto Del Noce (Il problema dell'ateismo, 1963; Il suicidio della rivoluzione, 1978). Se poi qualche opinionista volesse farsi un'idea del lungo addio delle élite al popolo, avrebbe l'imbarazzo della scelta, da Christopher Lasch a Jean-Claude Michéa.

Non sono sconosciuti o pericolosi estremisti, sono tra i più noti pensatori al mondo. Per chi vuole conoscerli, naturalmente. Per gli altri ci sono i luoghi comuni che si rivelano falsi non appena i cittadini prendono la parola, anche votando.

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