Gioielliere accusato di omicidio Ormai solo l'offesa è legittima

Caccia a due complici. La sicurezza è un'emergenza

Emozionante il monologo di Pierfrancesco Favino al Festival di Sanremo, che racconta con passione i sogni, la rabbia, le paure di un migrante. L'interpretazione con le lacrime agli occhi non può che toccarti il cuore. Soprattutto quando il testo del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltes parla del generale che spara nel mucchio in mezzo alla foresta. Dall'inferno di Sarajevo a quello di Mosul ho visto sparare veramente sui profughi, a donne e bambini con la bandiera bianca, che scappavano per salvarsi dalla guerra. Ma proprio il 10 febbraio, finale del 68º Festival di Sanremo, si celebra il giorno del ricordo dell'esodo di altri profughi istriani, fiumani, dalmati, tutti italiani in fuga dalle violenze di Tito a guerra finita. Favino e Michelle Hunziker, per (...)

(...) fortuna, lo hanno ricordato, anche se in pochi secondi. «Oggi è il giorno per non dimenticare le migliaia di italiani vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra» ha detto l'attore sul palco dell'Ariston. «È doveroso il nostro ricordo» ha aggiunto Hunziker «perché questa pagina tragica del dopoguerra fa parte a pieno titolo della storia nazionale». Due frasi sentite, ma pur sempre due frasi di una manciata di secondi. Davanti ad oltre 12 milioni di italiani forse sarebbe stato giusto fare uno sforzo in più dedicando un monologo oppure una parte della lunga e toccante interpretazione di Favino ai profughi di ieri.

Italiani, non stranieri, pure per non dimenticare quelli di oggi che scappano veramente dalle guerre. E non indistintamente tutti i migranti, compresi gli economici che sono la stragrande maggioranza, portati sul palco di Sanremo da canzoni in lizza e da ospiti che puntano a far passare la linea dei talebani dell'accoglienza. Quelli delle porte aperte a tutti in nome di un finto buonismo, che sfilano a Macerata contro il razzismo ed inneggiano alle foibe. Un ritornello aberrante di una minoranza di antagonisti si è detto, ma il «dittatore» artistico, Claudio Baglioni, avrebbe potuto spulciare sui social il 10 febbraio trovando uno scritto illuminante. «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. Non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane e spazio che sono già scarsi». Non sono frasi dei mangia migranti di oggi, ma le righe pubblicate dall'Unità nel 1946 nei confronti dei 350mila esuli italiani in fuga dalle foibe.

Per almeno mezzo secolo questo dramma è stato volutamente dimenticato o addirittura nascosto. Oggi che se ne parla alzando i veli imposti per motivi politici c'è ancora chi inneggia alle foibe fra i talebani dell'accoglienza eredi dei comunisti che nel 1946 rifiutavano qualsiasi solidarietà ai profughi italiani.

Possibile che con tutti i soldi a carico del contribuente che paga il canone, investiti per il Festival, a nessuno sia venuto in mente di dedicare qualcosa di più di due frasi al 10 febbraio?

Un giusto riconoscimento dei

martiri delle foibe, ancora oggi vilipesi, una «medaglia» per la 68ª edizione di Sanremo ed un doveroso ricordo, dopo decenni di dimenticanza, non solo dei migranti di oggi, ma dei profughi italiani di ieri.

Fausto Biloslavo

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