"Giustifico i genitori non gli avvoltoi vestiti da colombe"

La filosofa: dibattito imbarazzante, estraneo al vero interesse del bimbo

"Giustifico i genitori non gli avvoltoi vestiti da colombe"

Chiara Lalli, filosofa e saggista, insegna Bioetica e Storia della medicina alla Sapienza di Roma, dove in precedenza è stata docente di Logica e Filosofia della Scienza. È autrice di diversi saggi di bioetica dedicati ai temi della riproduzione medicalmente assistita, dell’aborto e dell’eutanasia.

Come giudica la vicenda di Alfie Evans? Trova che il dibattito pubblico si sia svolto in modo corretto?

«È una storia molto triste. Non ci sono risposte ideali, ma sicuramente ce ne sono alcune peggiori di altre. Per rispondere in modo non del tutto irrazionale è necessario conoscere i fatti. Un bambino di nemmeno 2 anni, ricoverato nel dicembre 2016, con il sistema nervoso centrale quasi completamente distrutto, senza prospettive di guarigione né di miglioramento. Il dibattito è stato ed è tuttora imbarazzante. Penso ad Assuntina Morresi, consulente della ministra della Salute e membro del Comitato nazionale di bioetica, che su Facebook ha usato l’immagine di un campo di concentramento per commentare la decisione inglese. I genitori sono gli unici a poter essere giustificati, tutti gli altri si sono comportati come avvoltoi mascherati da colombe».

Può spiegarci perché la giustizia inglese ha negato il trasferimento in Italia del bambino?

«Spesso basta leggere prima di commentare. I giudici inglesi si sono domandati: qual è il miglior interesse di Alfie? Potremmo anche aggiungere: in assenza di possibili miglioramenti e di terapie utili, che senso avrebbe trasferirlo? La Corte suprema inglese ha risposto così lo scorso 20 aprile: non sarebbe nel miglior interesse di Alfie Evans mantenere i supporti che lo tengono in vita né trasferirlo in un altro Paese per proseguire quei supporti».

Chi può decidere della vita e della morte delle persone? Un tribunale? La scienza? Una commissione medica? Non si apre in questa maniera all’arbitrio?

«Quando è cosciente e in grado di capire le conseguenze delle sue azioni, ogni persona può decidere della propria vita e della propria morte. O almeno dovrebbe essere così. È difficile decidere quando l’individuo non può esprimersi, perché ha perso quella capacità o non ce l’ha mai avuta come nel caso di un infante. In questo caso possono sorgere dei conflitti e la decisione sarà inevitabilmente “arbitraria”, nel senso che la stiamo prendendo noi per qualcun altro. La medicina risponde sul piano clinico: un trattamento serve o non serve? L’etica su quello morale: è giusto o sbagliato? La legge, infine, su quello giuridico: deve essere vietato o permesso? L’ideale è che i diversi piani vadano d’accordo. Quando questo non accade, dobbiamo cercare la soluzione meno insoddisfacente. Sarebbe però almeno necessario conoscere le condizioni mediche e cliniche di Alfie per discutere di cosa sia meglio per lui, no?»

Certo, ma allargando il discorso: fino a che punto la vita va difesa?

«Il diritto alla vita non dovrebbe essere giudicato intrinsecamente più forte della libertà. Possono nascere conflitti insanabili tra il “dovere” di sopravvivere e la volontà di morire, per esempio. Ognuno dovrebbe decidere per sé: due persone in condizioni cliniche uguali potrebbero decidere diversamente. La loro libertà dovrebbe essere garantita.



Non crede che i genitori avrebbero avuto il diritto all’ultima parola?

«Non sempre i genitori decidono nel miglior interesse dei figli. Penso a Stamina o ai genitori contrari ai vaccini. Quindi no, non sempre».

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