Su un altro processo legato a quel mostro giuridico che è il Ruby Ter è calato il sipario. Il tribunale di Roma, su richiesta della Procura, ha assolto con formula piena Silvio Berlusconi e il cantante Mariano Apicella dal reato di corruzione legato ad un'ipotesi di falsa testimonianza per le feste organizzate ad Arcore. Era uno dei filoni del maxi-processo imbastito dalla Procura di Milano, che non aveva digerito l'assoluzione in Cassazione del Cavaliere nel processo principale. Un'altra prova che tutta questa storia non ha nulla a che vedere con la giustizia, ma è stata solo una grande persecuzione a fini politici durata più di dieci anni. Montagne di carta che non hanno provato nulla. Una serie di processi che sono costati un pozzo senza fondo di soldi al contribuente e all'imputato. Roba da non credere in un Paese civile. E il fatto che sia stata la stessa Procura a chiedere l'assoluzione dimostra quanto l'intera tesi accusatoria fosse un buco nell'acqua.
Del resto, quale procura e di quale Paese aprirebbe un'inchiesta a carico di persone la cui sola colpa sarebbe stata quella di testimoniare a favore di un imputato che i Pm, in barba anche alla più elementare cultura garantista, desideravano assolutamente che fosse condannato? Perché di questo si è trattato: se non è un «unicum» a livello mondiale poco ci manca. E tutto - dispiace dirlo - per un fine politico. Altre ragioni non se ne scorgono dietro una concezione della giustizia medioevale che produce degli obbrobri giuridici di questo tipo. Coperti da una toga, i pm della Procura di Milano hanno potuto anche non ammettere la sconfitta in un processo: dopo averne perso uno, ne hanno imbastiti altri tre, uno a Siena, uno a Roma e uno nel capoluogo lombardo. Ora è rimasto in piedi solo quest'ultimo, che andrà a sentenza a gennaio. È meglio non immaginare cosa sarebbe successo ad un normale cittadino, che non avesse avuto le risorse di Berlusconi, se fosse stato sottoposto allo stesso trattamento: molto probabilmente avrebbe accettato la condanna, si sarebbe arreso per sfinimento e per l'impossibilità di fare fronte ai costi stratosferici di un processo «monstre» come questo.
È un argomento su cui dovrebbero riflettere i tantissimi magistrati, la stragrande maggioranza, che non sono accecati da un pregiudizio, politico o meno poco importa, verso un imputato. Perché, se avvengono episodi simili, c'è qualcosa che non funziona, per non dire di marcio, nel nostro sistema. Ci sono meccanismi perversi che neppure le norme contenute nella riforma Cartabia, con tutto il rispetto, sono in grado di sradicare.
Un sistema che, oltre a trasformare per l'imputato il processo in un calvario, in alcuni casi cambia il corso delle cose.
Quanti processi basati su niente, che si sono conclusi con delle assoluzioni, hanno condizionato, danneggiato carriere politiche o imprenditoriali? Quante inchieste inesistenti hanno cambiato il destino di questo o quell'altro imputato eccellente o, peggio, vulnerato il processo democratico? Non lo sapremo mai, sappiamo solo che, quando la giustizia si politicizza, in Italia o in qualsiasi Paese, diventa iniqua.
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