Non vorrei far la predica ai predicatori ma al di là di quello che si pensa di Pietro Grasso, attuale presidente del Senato, almeno una cosa nel suo comportamento appare discutibile.
Dal partito (per così dire) in cui si milita (per così dire) ci si sospende appena nominati in posizioni così rilevanti. Il presidente del Senato è, come è noto, la seconda carica dello Stato e, per eventuali temporanei impedimenti del presidente della Repubblica, è destinato a sostituirlo. Per questa particolarissima fattispecie Grasso avrebbe dunque dovuto dimettersi dal Pd subito dopo essere diventato presidente del Senato. Ricordo benissimo che i capi dello Stato, da Cossiga a Napolitano, uscirono rispettivamente dalla Dc e dai Ds.
Soltanto ora, e non per ragioni istituzionali ma in polemica con suo partito, Grasso ha compiuto il fatale passo, motivandolo con il commissariamento, non della sua natura di iscritto al Pd ma delle sue funzioni di presidente del Senato, con l'imposizione draconiana e prepotente del voto di fiducia. Per questo, conseguentemente, avrebbe dovuto dimettersi non da militante del partito ma da presidente del Senato. Il suo gesto avrebbe avuto un altro significato.
Non di schifìo, e neanche di tradimento, con l'imbarazzo grave e anche le conseguenze politiche negative per il Pd. E non sarebbe stata una gran rinuncia, intervenendo a fine legislatura. La sua scelta, nei termini che abbiamo visto, lascia l'amaro in bocca, e compromette la dignità e la nobiltà del gesto. Severo e giusto fervorino.
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