Dopo aver costruito per gli altri, in tutto il mondo, case, scuole, ospedali, fabbriche, autostrade, gallerie, ponti, viadotti, passanti, aeroporti civili e militari, stazioni ferroviarie, linee ad alta velocità, metropolitane, tranvie, dighe, acquedotti, centrali idroelettriche e nucleari, impianti fotovoltaici, quartieri fieristici, parcheggi, reti fognarie, carceri, caserme, basi missilistiche, centri commerciali, supermercati, parchi di divertimento e persino il castello della Bella Addormentata che a Parigi è diventato il simbolo di Disneyland, Paolo Pizzarotti ha finalmente edificato un giocattolo tutto per sé ai piedi della Cisa, sui contrafforti appenninici di Ozzano Taro che separano l’Emilia dalla Toscana, quelli che il frate francescano Salimbene de Adam da Parma, nelle sue cronache duecentesche, chiamava «li monti de le vigne», lungo la Via Francigena, dove suo padre Pietro nel 1963 s’era comprato una villa del Settecento che non ha mai fatto in tempo ad abitare. Una cantina. Non una cantina qualsiasi. Un’opera d’arte di 6.000 metri quadrati disegnata dall’architetto Fiorenzo Valbonesi e tirata su in soli 10 mesi, costata 3,6 milioni di euro. Tutt’intorno, 60 ettari di vigneti perfettamente integrati con i 7 piantati per passione nei primi anni Settanta da Andrea Ferrari, che regalano i 10 vini del Monte delle Vigne (dal Sauvignon al Lambrusco, 400.000 bottiglie destinate a diventare 700.00 nel 2013) e che hanno portato l’investimento complessivo a 6 milioni di euro, tanto da far dire al suo proprietario: «È vero che se la costruiva un altro avrei speso molto di più, comunque ci vorranno tre generazioni per ammortizzarla».
La prospettiva non sembra affatto impensierirlo. In fin dei conti l’impresa di costruzioni Pizzarotti, fondata a Parma nel 1910, ha superato indenne due guerre mondiali, una dittatura, la fine di un regno, la mezza fine di una repubblica e tre crisi economiche globali, arrivando più sana che mai, sempre nelle mani della stessa famiglia, alla quarta generazione. Anzi alla quinta, se si considera che a gettarne le basi fu Pietro, nato muratore nel 1851 e morto capomastro due anni prima che venisse costituita. Anzi alla sesta, se si tiene conto che Paolo Pizzarotti e la moglie Emma hanno già avuto sette nipotini dai tre figli Pietro, Enrica e Michele, 40, 38 e 36 anni, tutti impegnati in azienda.
Oggi la Pizzarotti contende a Salini il terzo posto nella classifica italiana dei costruttori di grande opere, quella che vede in testa Impregilo e Astaldi. Ha 3.500 dipendenti, un fatturato di 1,050 miliardi in costante crescita e continua a reinvestire per intero in azienda gli utili - 25 milioni quelli iscritti nel bilancio 2010, l’ultimo disponibile - senza mai distribuire dividendi, come da tradizione. Al quartier generale di Parma, ospitato nell’ex convento di San Cristoforo che Pizzarotti ha riportato all’antico splendore dopo sette secoli, si sono aggiunte le sedi di Bellinzona, Marsiglia, Montecarlo, Algeri, Rabat, Tel Aviv, Cluj, Riyad e Abu Dhabi. Un’espansione legata allo sviluppo delle attività internazionali - attualmente il gruppo parmigiano ha in portafoglio commesse per 4 miliardi di euro - che ha richiesto la costituzione di una compagnia aerea, Aliparma, anche questa detenuta al 100 per cento dalla famiglia, con una flotta formata da un Hawker 800Xp e da un Beechjet 400A, che vengono noleggiati per viaggi d’affari quando non sono utilizzati dal presidente e dai suoi collaboratori per le visite nei cantieri.
E di cantieri da tener d’occhio il cavaliere del lavoro Pizzarotti, a capo di una holding con partecipazioni in un centinaio di società, in questo momento ne ha una miriade. Per esempio la Brebemi, la nuova Brescia-Bergamo-Milano alternativa alla A4, che in mezz’ora collegherà la città della Leonessa col capoluogo lombardo, 62 chilometri di tracciato autostradale e 35 di viabilità ordinaria pronti a fine 2013, già per metà completati alla ragguardevole media di 59 metri costruiti ogni giorno. «Sì, ma vuol mettere il mio Nabucco, 70 per cento Barbera e 30 Merlot, affinato 12 mesi in barrique e 12 in bottiglia?». Oppure l’alta velocità Treviglio-Brescia, che sarà finita nel 2016, e poi la Brescia-Verona. «Sì, ma ha mai assaggiato il Rosso Monte delle Vigne, 70 per cento Barbera e 30 Bonarda?». Oppure la tramway di Constantine in Algeria. «Sì, ma lo sa che il Rubina, brut rosé ottenuto da Barbera anziché da Pinot nero, non ha niente da invidiare a certi champagne?». Oppure i nuovi ospedali in costruzione a Massa, Prato, Pistoia e Lucca. «Sì, ma ci crede che la Malvasia dolce di Candia farebbe resuscitare anche un morto?».
Pare che ami il vino più dell’edilizia.
«Dipende dalle annate. Del vino mi affascina tutto. È una storia completa. Non c’è molta differenza tra piantare vigne e costruire tangenziali, sa? Si parte sempre dall’analisi del terreno, si scotica e poi si mettono a dimora le barbatelle oppure si stende la pavimentazione bituminosa. L’agricoltura fu la mia prima attività durante l’apprendistato in azienda. Mi feci una stalla e andai a prendermi le mucche in Olanda. Il latte lo davo al caseificio di Ozzano Taro, che ci ricavava il Parmigiano. Sei mesi l’anno, da maggio a ottobre, abito su queste colline. Amo molto la campagna».
Allora perché non è rimasto un imprenditore agricolo?
«La nostra famiglia ha avuto qualche disavventura. Mio bisnonno Pietro morì a 57 anni. Mio nonno Gino gli subentrò a 21 e morì a 48. Mio padre Pietro prese in mano le redini dell’azienda a 24 e a 55 fu stroncato da un tumore ai polmoni. Mia madre Enrica era mancata sei anni prima. Mi erano rimaste solo due sorelle, una già sposata. Lo zio materno Gino Rocca, commercialista a Milano, che non aveva figli e ci faceva da papà, mi disse: “Tocca a te”. Era il 1966, io non avevo ancora 19 anni, stavo affrontando l’esame di maturità. L’anno prima ero sopravvissuto per miracolo a un drammatico incidente stradale. Con la mia prima auto, un Maggiolino cabriolet, avevo cappottato finendo in un fosso: la ragazza che era al mio fianco volò dentro un tombino, illesa; io mi distrussi la clavicola e persi per sempre l’uso del braccio destro. Per fortuna ero mancino, per cui ho continuato a scrivere, a giocare a tennis e a calcio, a pilotare auto sportive».
Che cosa rispose a suo zio?
«Non mi sentivo certo pronto per guidare una società che a quel tempo aveva già 600 operai e fatturava un miliardo di lire, anche se conoscevo bene i dirigenti e il loro attaccamento alla nostra famiglia. Pensi che uno di loro, l’ingegner Giorgio Caroli, quando finiva l’orario di lavoro mi dava gratis ripetizioni di matematica e fisica. Fu necessario un provvedimento di emancipazione emesso dal tribunale di Parma per farmi assumere la direzione dell’impresa. Avrei desiderato laurearmi in ingegneria, ma era indispensabile la frequenza, e io di giorno dovevo lavorare, potevo studiare solo la sera, così ripiegai su giurisprudenza. Certo dormivo molto meglio allora di oggi».
Mi parli di suo padre.
«Era un uomo serio, lungimirante, di grande integrità morale, innamorato dell’arte, come può vedere da questi De Chirico, Rosai, Guttuso, Lilloni e Tomea che mi lasciò appesi alle pareti dell’ufficio. Allora si lavorava anche il sabato e la domenica e spesso ne approfittava per portarmi con sé nei cantieri. Ricordo ancora il suo addolorato stupore quando nel 1958, di ritorno da una zolfatara di Casteltermini, in Sicilia, ci raccontava delle lunghe file di minatori che la mattina gli si presentavano per chiedere un lavoro. “Era evidente che nessuno li aveva mai ascoltati”, concludeva. L’ho molto amato per questa sua umanità».
Ma com’è nato l’impero Pizzarotti?
«Il primo lavoro fu la chiesetta sulla Cisa, intitolata alla Madonna della Guardia, costruita da mio nonno Gino nel 1920. Il viaggio di sola andata da Ponte Taro al Passo per portare le attrezzature del cantiere, 80 chilometri, durò tre giorni. Nello stesso periodo costruimmo un enorme hangar per dirigibili ad Augusta, in Sicilia. Poi per circa 40 anni, fino alla fusione con Edison, la Montecatini fu il nostro principale committente: 13 stabilimenti da Castel Guelfo a Porto Empedocle».
Lei è al vertice dell’azienda da quasi mezzo secolo. Che opere importanti ricorda di questo periodo?
«I primi stabilimenti della Barilla. La ricostruzione in Campania e Basilicata dopo il terremoto del 1980. Molti tratti su dieci autostrade. Gli shelter per gli euromissili a Comiso. Le basi militari statunitensi di Sigonella e di Camp Derby a Livorno. La scuola della Guardia di finanza a Bari, la più grande d’Italia. Il porto di Bandar-Abbas in Iran. La diga di Kef Eddir in Algeria. Il nuovo polo della Fiera di Milano. L’alta velocità Milano-Bologna e la galleria di Modane, con pendenza del 12 per cento, sulla Tav Lione-Torino. La Catania-Siracusa, una delle più belle e moderne autostrade d’Europa, da poco completata. Il modulo di scambio fra Tav e metropolitana all’aeroporto parigino Charles De Gaulle di Roissy».
A Parigi ha lavorato anche per Eurodisney nel parco divertimenti di Marne La Vallée.
«Sì, la Pizzarotti ha costruito tutta l’area di Fantasyland, compreso il castello rosa della Bella Addormentata all’ingresso. A me sembrava la Torre di Babele: capomastri italiani, muratori irlandesi, artigiani francesi per le opere in ferro battuto, manovali portoghesi. Ogni tanto arrivava dagli Stati Uniti un vecchio scorbutico che ci impartiva ordini perentori, senza mai salutare. Era il vicepresidente della Disney».
L’incarico più complesso?
«La centrale idroelettrica di Luzon nelle Filippine, inaugurata nel 2001 e costata 240 milioni di dollari: 25 chilometri di galleria e due dighe in calcestruzzo».
Ora quali grandi opere ha in corso?
«Il raccordo della Brebemi con la tangenziale est di Milano e la A1, che in parte sarà pronto già l’anno prossimo. Le tangenziali di Como e Varese per la Pedemontana lombarda. L’autostrada Cispadana da Reggiolo a Ferrara, che in prospettiva continuerà fino al mare, congiungendo l’Autobrennero all’Adriatico e alleggerendo il traffico sull’Autosole. Il tunnel di Oudayas in Marocco, che passa sotto il vecchio palazzo reale di Rabat, collegando la casbah alla medina. L’autostrada Bucarest-Brasov. L’ospedale La Timone a Marsiglia e quello di Sospel vicino a Mentone. Un grande parcheggio a Nizza. Dopo circa dieci anni di lavoro abbiamo fatto cadere l’ultimo diaframma di roccia nella galleria di Sedrun sulla linea del Gottardo, che con i suoi 57 chilometri è il più lungo traforo ferroviario del mondo, lo snodo principale del Corridoio 24 che unirà Rotterdam a Genova, cioè il Mare del Nord al Mediterraneo. L’accesso dei nostri operai al cantiere avviene attraverso due pozzi che scendono fino a 840 metri di profondità».
Alla sua città ha regalato l’Ospedale dei bambini.
«Con Barilla e Fondazione Cariparma. In memoria di mio padre, che mi ripeteva sempre: “Un affare in cui si guadagna solo del denaro non è un affare”».
Che cosa conta di più in un’azienda?
«Gli uomini, la squadra. Ho avuto la fortuna d’avere al mio fianco personaggi eccezionali, come Franco Nobili, il leggendario manager che fu a capo dell’Iri, al quale nel 2007 avevo affidato la presidenza. Purtroppo morì all’improvviso l’anno dopo. Che senso etico. E che umiltà».
A proposito di etica: di Tangentopoli che mi dice? I costruttori erano i principali finanziatori occulti dei partiti.
«Dico che c’è una certa differenza fra l’essere corrotti e l’essere concussi. Da allora ci siamo dati un codice deontologico scritto, firmato da tutti i dipendenti e inserito in tutti i contratti. Chi sgarra è fuori».
Quali doti cerca in un collaboratore?
«Prima guardo il curriculum scolastico e lavorativo e solo dopo bado a com’è vestito. Oggi non riesco più a trovare il tempo per i colloqui con i candidati, però continuo a firmare tutte le assunzioni. E mi capita di bloccarne alcune già fatte».
Per quale motivo?
«A volte basta una scrittura disordinata».
Mario Monti lo assumerebbe?
«E chi non lo assumerebbe? Guardi, prima che Monti diventasse premier, ero molto pessimista, stavo seriamente meditando di lasciare l’Italia, trasferendo la Pizzarotti in Francia o in Svizzera».
Addirittura.
«Non per colpa di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere è bravo e capace, ma lo costringevano a galleggiare. A preoccuparmi era il sistema Italia. Faccio un esempio: il Cipe si riuniva per decidere il finanziamento di un’importante infrastruttura, che però diventava operativo due anni dopo, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Una follia. Monti ha potuto ridurre subito questo intervallo ad appena 30 giorni perché decide da solo, senza dover dipendere dai partiti o dagli elettori».
Lei non ha mai dato interviste. Strano per un consigliere d’amministrazione della Gazzetta di Parma, il più antico quotidiano d’Italia.
«Ex.
E perché adesso ha deciso di parlare?
«Lo domando io a lei. Stasera me ne sarò già pentito».
(585. Continua)
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