Coronavirus

"Io, sopravvissuto per tre settimane in un tunnel senza aria"

Storie del virus: le voci di un guarito, della figlia di una vittima e di un medico di base. A Manerbio il parroco illumina la chiesa coi nomi di tutti i morti

"Io, sopravvissuto per tre settimane in un tunnel senza aria"

La Bassa Bresciana non è mai stata così silenziosa. E’ il rumore del dolore, della morte, delle lacrime. A Manerbio, paese a 30 chilometri da Brescia abbeverato dal fiume Mella, dall’inizio dell'anno sono morte 150 persone, su un totale di circa 13mila abitanti. Non sono tutti deceduti a causa di quel maledetto virus, ma i covid-positivi non sono neanche i soli 30 accertati ufficialmente. Basti pensare che mentre nel marzo del 2019 i defunti erano stati 7, un anno esatto dopo sono stati 67. E’ stato quello il mese nero per la comunità - catapultata come tante altre nel vortice del coronavirus.

Il sopravvissuto

Rinaldo è uno dei sopravvissuti. Lui, all’età di 62 anni, nei primi giorni di quel mese orribile è entrato in un tunnel durato tre lunghissime settimane. "Avevo qualche linea di febbre - racconta -, ho fatto degli accertamenti e le mie condizioni erano già così gravi che non potevo restare a casa. Sono stato ricoverato subito al Civile di Brescia: lì dopo pochi giorni ho avuto la trombosi alla gamba sinistra e sono stato operato, dopo 3 giorni nuove complicazioni e sono stato rioperato. Alla fine alcuni medici mi dissero che la cura della trombosi aveva contribuito a guarire anche la polmonite". Ma prima della guarigione ha vissuto un incubo di oltre 20 giorni. "La cosa che più ricordo è la mancanza di aria, il non poter respirare - continua -. Oggi mi sento fortunato: nei primi giorni ho avuto paura, non dormivo nulla, il tempo non passava e continuavo a pensare, anche al peggio". "Oggi non mi sento più un malato - chiosa Rinaldo - sono tornato in famiglia e sono rientrato nella comunità". Lo dice sorridendo, fissando a volte nel vuoto.

Il vuoto della perdita

Sono invece tanti, troppi, coloro i quali non sono stati fortunati. Come Daniela, che nel giro di pochi giorni - sempre in quel tragico inizio marzo - ha perso suo padre. L’uomo, 82enne, non fatica a respirare e non ha tosse, ma negli ultimi momenti a casa prima del ricovero la sua pressione schizza da 86 a 210. "Negli ultimi attimi con noi - racconta in lacrime Daniela - non era più cosciente, come se fosse drogato. Possiamo soltanto immaginare cosa abbia vissuto negli ultimi giorni in completa solitudine. Sono cose che scioccano, ancora oggi dopo 60 giorni non riusciamo a staccare, perché non l’abbiamo più visto. E’ una cosa talmente più grande di noi che non si riesce a sopportare".

La luce per i defunti

Non numeri, dunque ma nomi e storie. Per questo nella sua chiesa il parroco del paese, don Alessandro Tuccinardi, ha voluto accendere una candela per ogni vittima dall’inizio dell’anno, sia morti di coronavirus che non. "Questi 150 defunti dal primo dell’anno li abbiamo voluti chiamare per nome mettendo accanto a loro una luce.

Questa è una comunità che continua a vivere, ma che sa di aver attraversato la morte".

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