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I cento anni di Montecitorio diventato bivacco di alieni

Oggi è un secolo di Transatlantico, dove a furia di "passi perduti" e sgambetti l'Italia non s'è desta

I cento anni di Montecitorio diventato bivacco di alieni

Il Palazzo e l'aula compiono cento anni, ma la democrazia parlamentare è moribonda. Almeno, quella che conoscevamo. Lo chiamano Parlamento, ma non tu non devi parlare. Parlano i capicordata che oggi convocano le pecore al voto via sms. Meglio tornare agli anni della (gloriosa) prima Repubblica, quando occorreva un permesso per la sala stampa in rigorosa giacca e cravatta. Tutti hanno visto i filmati di Mussolini che definisce quest'aula sorda e grigia, giusto il luogo adatto per far fare bivacco ai manipoli. Poi, certo, l'Aventino, che non era il colle romano ma la sala in cui pregevoli arazzi celebrano l'unità della nazione con l'apologo di Menenio Agrippa. Lì, la democrazia parlamentare si suicidò in preda a una crisi di nervi consentendo all'onorevole Benito Mussolini di mettere i lucchetti ai portoni e passare al regime. Poi il discorso di Giacomo Matteotti, il duce fascista che si assume la responsabilità del delitto e poi finalmente la Montecitorio che ho potuto vedere e vivere. Li ho visti tutti, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, Aldo Moro e Giuseppe Saragat, da Pertini presidente della Camera a Giorgio Almirante a - ovviamente - Giulio Andreotti con cui ho sempre avuto un personale conflitto: compagno di giochi di mia madre e mio zio negli anni Venti, me lo ritrovai acerrimo e impeccabile nemico nella commissione Mitrokhin, ma al Senato. Alla Camera i vecchi dinosauri erano mostri sacri. Se ti azzardavi a denigrare l'istituzione, ti arrivavano i carabinieri a casa. Montecitorio era il sancta sanctorum della democrazia, ritrovata e subito angariata da una Costituzione che per espresse volontà internazionali vieta il primo ministro e impone il bicameralismo perfetto per garantire il freno a mano tirato.

Vedo con i miei occhi di bambino il primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola sbarcare a Montecitorio da Napoli con un macchinone impolverato. Ricordo Antonio Segni bianco, magro e nervoso e il durissimo ministro dell'Interno nemico del Pci Mario Scelba, che ho avuto la sorte di intervistare poi sul letto su cui sarebbe morto, perfettamente lucido. O Amintore Fanfani che poi scelse il Senato e la sua rovina e che era il più sferzante collezionista di sarcasmi. Ed Enrico Berlinguer, naturalmente. E l'arrivo di Silvio Berlusconi, quello che aveva sbarrato la strada al Pci trasformato in Pds da Achille Occhetto. Prima c'era stata la Montecitorio di Tangentopoli, tutti dissero che era finita la prima Repubblica, ed ecco Francesco Cossiga il Picconatore, quando a Montecitorio da sottosegretario di Aldo Moro era delegato alla sorveglianza sui servizi segreti i quali sorvegliavano lui. Berlusconi fu poi sgambettato dall'alleato Umberto Bossi per il coup d'état di un avviso di garanzia reso pubblico. Bossi tornò all'ovile e lo ricordo fra le dépendance di Montecitorio e cioè alla gelateria Giolitti, dove nei primi Sessanta facevano colazione Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. L'altra succursale di Montecitorio era il ristorante Da Fortunato al Pantheon dove i montecitoriani si scambiavano segnali attraverso i giornali e i giornalisti e le mozzarelle meravigliose di quel tempo che fu. Passa un millennio di pochi anni ed ecco la ragazza cattolica poi bossiana, Irene Pivetti, nuovo presidente donna della Camera che mi mandò un commesso in tribuna per strapparmi il binocolo. Si può guardare, ma non troppo. Ho visto amori nascere e morire anche fra giornalisti e parlamentari.

L'aula di Montecitorio in sé non conta, ma quel che conta (contava) è il salone dei passi perduti, il Transatlantico dove sono nati e morti partiti, leader, cronisti senza voce slacciati e sudati e si sono fatti e disfatti i governi attraverso le interviste rubate. Ecco Bettino Craxi in mezzo al crocicchio che disegnava grandi cerchi all'altezza della vita come gesto retorico e che poi restava zitto anche per un minuto. E di colpo riattaccava e giù, tutti a scrivere. Diffamare il Parlamento allora sarebbe stato considerato impensabile più ancora che sacrilego. Erano tutti parlamentaristi. Era parlamentarista Giorgio Almirante e lo erano tutti gli altri, dai comunisti ai democristiani, ai socialisti. Gli «extraparlamentari», i riottosi nelle piazze rivoluzionarie, avevano visioni di altre democrazie. Ma il tempio era circondato da assoluto rispetto. Tant'è vero che in aula non si mangiava, in aula non si beveva ma al massimo potevi premere un pulsante e chiedere a un commesso un bicchiere d'acqua. Gli «onorevoli» erano già allora circondati da leggende metropolitane sui «privilegi»: la barberia che è sempre stata a pagamento, la buvette delle uova sode con un bicchiere di Fiuggi dove tutti ci siamo dati appuntamento, la famosa mensa della Camera dove pagavi poco ma non potevi portare nessuno dall'esterno. Nel popolaccio queste banalità di tutti i parlamenti, diventarono equivalenti alla corte di Versailles. In realtà i deputati erano lisi e stanchi, arrivati col treno con un trolley (ora c'è un percorso inclinato per le rotelle) e a nessuno - allora - sarebbe venuto in mente di considerare un eletto di Montecitorio come un impiegato a contratto, un lavoratore Inps che va controllato nelle votazioni (essere assenti al voto è uno dei più utili strumenti di filibustering). Il Pci spediva in Parlamento, fra Camera e Senato, tutti i suoi burocrati di Botteghe Oscure. Massa anonima e disciplinata, mollavano due terzi dell'indennità al partito che poi li avrebbe sfruttati al loro ritorno smettendo di pagarli visto che avevano il vitalizio. A Montecitorio arrivavano gli echi degli aumenti che i magistrati attraverso la loro autonomia si concedevano senza chiedere il parere di nessuno. E poiché chi fa le leggi non può guadagnare meno di chi le applica, scattava la corsa all'adeguamento. Capitoli grigi e albertosordiani, che riflettevano l'Italia del boom, poi del centrosinistra, dei pentapartito, dell'arco costituzionale, delle formule e dei veti incrociati, del nuovo italiano leguleio e democristiano in cui però ogni sillaba aveva un significato e se non parlavi la lingua era meglio che cambiavi mestiere. Montecitorio oggi sembra il museo di Montezuma, o un tempio egizio, qualcosa di alieno, da Guerre Stellari. Oggi è abitato per lo più da strani alieni, assediato all'esterno da vocianti che suonano i tamburi e le pentole, intimidito, ridotto molto peggio dell'aula sorda e grigia disprezzata da Mussolini. I nuovi disprezzatori preparano una Montecitorio on line, controllata per via telematica, non più programmi ma contratti, niente più segretari ma capoccia.

Un secolo è passato, Montecitorio è un ricordo.

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