Nell'aula della Commissione bilancio del Senato, da qualche giorno, i numeri più «attenzionati» non riguardano i costi di questo o quel provvedimento, ma il conto dei senatori contrari alle elezioni anticipate. Il pallottoliere lo tiene Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds e ora protagonista dell'ala del Pd che discende dal Pci. Una settimana fa agli altri parlamentari, alquanto interessati a quelle addizioni e sottrazioni, diceva: «Nel gruppo del Senato del Pd sono almeno 37 quelli che sono contro le elezioni». Ieri, di fronte all'avvicinarsi del redde rationem, i calcoli si sono fatti più complicati. «Tra qui e la Camera - spiegava ad un senatore di Forza Italia - sono almeno 400 gli irriducibili del non voto. Quello lì, lo sistemiamo noi!». «Quello lì» sarebbe Renzi, che insieme a Salvini e Grillo, capeggia il partito delle elezioni anticipate. Nel Palazzo il tema del voto anticipato tiene banco. In un altro angolo Pier Ferdinando Casini aizza «la resistenza» alle urne. «La sentenza della Consulta - ammette di fronte a Maurizio Gasparri - avvicina le elezioni. Ma io ho spiegato a quel pazzo di Renzi: Non fare il matto come al solito, qui bisogna introdurre almeno il premio di coalizione, altrimenti rischi di dar vita ad un Parlamento in cui grillini, leghisti e Fratelli d'Italia messi insieme fanno il 51%: certo non potranno mai governare insieme, ma impediranno agli altri di governare!».
Appunto, Renzi. Tutto si può dire, meno che non abbia le sue buone ragioni per volere andare presto alle urne. La sconfitta al referendum è stato un colpo durissimo e i suoi avversari interni, dopo averlo fatto fuori da Palazzo Chigi, vogliono sfrattarlo dalla sede del Nazareno. «Dobbiamo lanciare - spiega il dissidente Fornaro - un'Opa sul Pd». È il motivo principale che spinge Bersani, D'Alema e soci a fare barricate contro le urne. Ma non sono solo le dinamiche interne del Pd a rendere prioritaria per Renzi la scelta elettorale. Un retroscena su Panorama a firma Keyser Söze riporta un ragionamento dell'ex premier che non fa una grinza, che paragona lo scenario attuale a quello del 2011, quando i grillini, grazie al governo Monti, passarono in un anno dall'8 al 25%. «Napolitano sbagliò in quell'occasione - è la tesi di oggi di Renzi - ad impedire il voto. Ripetere l'errore oggi sarebbe diabolico: in autunno dovremmo approvare una legge di stabilità complicata e, dopo qualche mese, andare a elezioni. Un harakiri». Un ragionamento che ha un suo fondamento: mettere in piedi una legge di stabilità che deve rimediare alle «mance» distribuite da quella di quest'anno nel vano tentativo di vincere il referendum è già un'impresa; se si aggiunge che si dovrà elaborarla, mentre in Germania divampa la campagna elettorale giocata da tutti i protagonisti contro gli Stati europei «spendaccioni», l'impresa diventa ardua, se non impossibile. Ecco perché, da qualsiasi punto di vista la vedi, per Renzi le elezioni anticipate, massimo a giugno, sono un elemento strategico. «Se non andiamo presto al voto - osserva Salvatore Margiotta, senatore piddino che in passato non è mai stato tenero con Renzi - non spianano Matteo, ma il Pd».
Con questa preoccupazione in testa il segretario del Pd guarda ai prossimi mesi. Sa che sul suo versante ci sono anche Salvini e Grillo: con i sondaggi che segnalano una spasmodica voglia di urne (quasi il 70% degli italiani) è difficile per i leader populisti mettersi di traverso. Salvini al massimo può accettare giugno. Stesso discorso vale per la Meloni. Come pure per Grillo: i suoi parlamentari certo non sono entusiasti, visto che le candidature saranno affidate alla cabala della Casaleggio associati, ma di certo non possono opporsi. Quindi si tratta di uno schieramento ampio, solo che Renzi vorrebbe che fosse della partita anche Berlusconi: non pretende un suo «sì» alle urne, ma almeno che non si metta di traverso. Già, ci sono i vescovi, il presidente del Senato e, magari, pure il Quirinale a creare problemi. Anche perché il fatto di dover dare l'eutanasia ad un governo guidato da un esponente del Pd è, di per sé, cosa non semplice. Per cui il segretario del Pd vorrebbe evitare ulteriori complicazioni. Motivo per cui il premier non è «pignolo» sul tipo di legge elettorale con cui andare a votare, anzi, a quanto pare, su quell'argomento è pronto ad assecondare il Cav. Tant'è che ha accolto positivamente le modifiche apportate dalla Consulta all'Italicum e, più in generale, il ritorno ad un sistema impostato sul «proporzionale». «Da quanto ho capito Amato gli ha dato una mano - insinua Francesco Colucci, un passato socialista, berlusconiano e ora centrista di governo -: la vulgata di una guerra tra lui e Renzi è una menata; chi conosce Giuliano sa bene che guarda avanti, è già ripartito per un'altra corsa per il Quirinale».
Sia vero o meno, la legge uscita dalla Consulta è fatta apposta per Renzi e il Cav: un maggioritario con un premio pressoché irraggiungibile, per cui, di fatto, un sistema «proporzionale»; dei capilista «bloccati» che danno un grande potere ai leader di partito. Con qualche aggiustamento la strada per le elezioni, almeno sulla carta, dovrebbe essere spianata. Certo lo scenario e i meccanismi della politica cambieranno radicalmente, ma Renzi già da tempo aveva avviato una «metamorfosi» per adeguarsi al nuovo sistema. Aveva spiegato ad un senatore di Forza Italia all'indomani della sconfitta referendaria: «So bene che non potrò più essere quello di un tempo, che faceva tutto e poteva tutto. Sarò il segretario del Pd, che darà le carte insieme ad altri. Sarò influente, ma posso anche non essere io il premier. E non mi importa perché, in ogni caso, da me dovranno passare!».
E il Cav? Lui una priorità in testa ce l'ha: una legge elettorale che sia il più possibile «proporzionale». Ma quel do ut des con Renzi sulla data elettorale ancora non lo convince. Intanto perché non ha perdonato i «voltafaccia» che portarono alla fine del patto del Nazareno. «È meno sveglio di quanto pensassi - è il suo giudizio - e ha commesso due errori letali: rompere con me e gettarsi nell'avventura del referendum». Poi, ci sono le lusinghe dell'establishment sulla possibilità che da Strasburgo esca una sentenza che lo renda rieleggibile. E, ancora, la riluttanza dei suoi ad accorciare i tempi della legislatura. «Dalla Consulta - osserva Paolo Romani - sono uscite due leggi non omogenee. Bisogna rimediare. Inoltre la tematica è più ampia: dobbiamo parlare di legge elettorale, legge sui partiti e sulle primarie». Infine, c'è il corteggiamento incessante della minoranza del Pd che lo vorrebbe a capo del partito del «non voto». «Ci vorrebbero un centinaio di parlamentari del centrodestra - confida uno dei consiglieri più ascoltati da Bersani - che chiedessero modifiche alle leggi licenziate dalla Consulta». In più, nelle settimane scorse, anche qualche «renziano» è andato dal Cav per prendere le distanze dal suo capo. «Sappiamo chi è stato - ammette minaccioso il fedelissimo di Renzi, Andrea Marcucci - e perché l'ha fatto». Per cui al Cav è venuto anche un dubbio: ma Renzi ancora comanda nel Pd?
Siamo, quindi, in una situazione di studio. «Io - fa presente, però, Renzi - sono pronto a confrontarmi per possibili modifiche, ma voglio tempi certi. Non accetterò meline». E tutti guardano al Quirinale, al primo protagonista dello snodo elettorale. Mattarella in passato aveva confidato il suo parere al Cav: «Penso sia difficile votare prima dell'autunno». Ma l'attuale capo dello Stato ha un profilo diverso dal suo predecessore: è più un notaio che un alchimista dei processi politici. Per cui punterà a favorire un'intesa generale tra le forze politiche sul voto, ma non si metterà di traverso per impedirlo.
Non per nulla, quando il presidente della Consulta gli ha letto due giorni fa il comunicato sulle modifiche all'Italicum, non ha detto nulla, neppure sull'ultima riga: «... la legge è suscettibile di immediata applicazione».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.