Saranno stati cinque, o forse sei anni fa. Umberto Bossi era deputato. Mi aveva dato appuntamento alla Camera, per un'intervista. Mi aspettava seduto su un divano, in un corridoio, il solito mezzo toscano in un angolo della bocca, il fazzoletto verde nel taschino della giacca. «Buon giorno», mi presentai fornendo le generalità, nome cognome e testata di appartenenza. Lui era un po' rallentato nei movimenti, la voce roca e stanca, quella di un vecchio guerriero. «Brambilla... Brambilla...», disse anzi mormorò: «Brambilla è un nome dei nostri».
La Lega, sulla quale i giudici vogliono ora calare il sipario, era già finita allora, in quel 2012, o forse 2013. Era stata Nicoletta, la fedele segretaria del Capo, ormai sfrattata - come lui - da via Bellerio, a telefonare alla Stampa, dove lavoravo a quel tempo, per offrire un'intervista. Erano anni che Bossi non ne rilasciava una. E per anni eravamo impazziti tutti, noi giornalisti che assediavamo la casa di Gemonio nel cercare di estorcergliene una. Niente. Non c'era nulla da fare. Il «cerchio magico» faceva da cordone sanitario, non c'era verso di riuscire ad avvicinare il Capo, neanche per i cronisti con maggiore anzianità di servizio al seguito della Lega. Il fatto che Nicoletta avesse chiamato per offrirne una, di intervista, voleva dire che le interviste non le chiedeva più nessuno, e voleva dire anche, in fondo, che ormai Bossi era arrivato al capolinea: non c'era più il cerchio magico, non c'era più il Nord, non c'erano più la Padania e il federalismo, non c'erano più neanche «i nostri», quei Brambilla cui la primissima Lega, quella dei primi anni Ottanta, spediva a casa i suoi giornali patriottici, con la propaganda contro «i professori meridionali nelle nostre scuole», con i suoi slogan «lumbard tas!», «lombardo taci», per dire che ci stavano invadendo, i terroni, e che per loro la pacchia doveva finire.
La Lega era quella cosa lì: i Brambilla, i Fumagalli, i Monguzzi, i Pirovano, i Brugola, i Borghi, i Colombo, i Beretta, i Meregalli, i Cerutti, i Ravasi, i Sirtori, i Santambrogio, i Castoldi, i Besana, i Villa, i Galbiati, i Perego, gli Invernizzi, i Tagliabue. La Lega era il Nord. Non esisteva, non è mai esistita una Padania come esistono la Catalogna o i Paesi Baschi, perché da Cuneo a Venezia si parlano cento dialetti diversi, e bastano quaranta chilometri scarsi - quelli che dividono ad esempio un milanese da un bergamasco - per rendere impossibile un dialogo se non si fa ricorso a quella lingua franca che è l'italiano. Però Bossi diceva che al Nord, da Cuneo a Venezia, c'era un «idem sentire», che era quel modo di essere che fa tirar su la saracinesca la mattina, che fa rischiare i soldi di famiglia in un capannone o in una fabbrichetta sotto casa, che fa pensare che prima di tutto il «laurà».
Il sogno di dare dignità politica a questo idem sentire era partito da un piccolo paese del Varesotto, Verghera di Samarate. Era un paese allora sconosciuto e oggi dimenticato, anche se in tutto il mondo è conosciuta, e da un pezzo, la sua fabbrica più prestigiosa, la MV Agusta, quella che faceva la moto di Giacomo Agostini, perché MV vuole dire Meccanica Verghera, anche se non lo sa nessuno. Qui, in questo piccolo paese, il giovane Bossi si era iscritto alla locale sezione del Pci, poi aveva tentato senza fortuna una vita borghese, la laurea in medicina mai conseguita, un matrimonio fallito.
Ma da qui, da questa terra, Bossi aveva respirato e raccolto l'idem sentire dei bar, che l'Italia la manteniamo noi, che basta con «i Napoli» che campano con le baby pensioni o con quelle finte di invalidità, che basta con Roma ladrona. A questi discorsi da bar che poi non erano solo da bar, Bossi aveva dato dignità e forma politica, poi perfino di partito. Ed erano arrivati i primi consiglieri: il Leoni Giuseppe a Varese città, il Bianchi Giacomo a Varese provincia, il Brivio Pierangelo a Gallarate. Quest'ultimo, il Brivio Pierangelo, era il marito di sua sorella, la Bossi Angela, e con l'Umberto avrebbe poi litigato, dando vita alla prima scissione nella storia della Lega, fondando un Sole delle Alpi o qualcosa del genere di cui si sarebbero subito perse le tracce.
Poi la Lega era diventata una cosa grossa. Un posto da Senatùr nel 1987. L'exploit alle politiche del 1992, in concomitanza con Mani pulite. La presa di Milano, con Marco Formentini, nel 1993. L'arrivo al governo, nel 1994, con Berlusconi. Quindi la pazza estate della canottiera, ma comunque Bossi sempre sotto i riflettori, ormai era un leader nazionale e non lo prendevano più in giro, anzi si diceva che aveva fiuto politico, perfino Giorgio Bocca era arrivato a votarlo.
Con il Cavaliere Bossi ha discusso, litigato, rotto: ma poi è sempre tornato lì, a casa, perché i due qualcosa in comune, e di profondo, lo avevano e lo hanno: sono e restano due uomini del Nord. Così, dopo gli anni di separazione, che erano poi gli anni della Secessione, del rito dell'ampolla, del Parlamento del Nord a Bagnolo San Vito in provincia di Mantova, alla fine la Lega è diventata sempre più l'alleato di ferro di Forza Italia.
Forse la fine, o meglio la profonda metamorfosi della Lega era cominciata già una notte di neve di quattordici anni fa, su quelle stesse strade del Varesotto dove tutto era cominciato, tra Gemonio e Varese, quando il Capo si sentì male. Nulla sarebbe stato più come prima. Un pezzo fondamentale del nome, e cioè «Nord», lo ha già tolto Salvini, un leader che nella Lega era entrato un po' per caso, in uno di quei festival leghisti dove trovavi una maglia per tutte le categorie dell'umano, c'erano gli stand per i Cattolici Padani, le Donne Padane, i Medici Padani, i Ciclisti Padani, perfino gli Orsetti Padani per i bambini. E lui, Salvini, che era allora un po' compagno, si era iscritto ai Comunisti Padani. Via la parola «Nord», se n'era andata anche l'anima della Lega. E ora, che ne sarà, di questo partito? Proprio quando arriva all'apice del consenso, sembra sul punto di rinascere sotto altre spoglie.
E in fondo non c'è da stupirsi perché tutto cambia, abbiamo visto passare la Dc e il Pci, perfino l'Unione sovietica, cosa vuoi mai che sia se cambia anche la Lega. E poi si muore un po' per poter vivere, come cantava Caterina Caselli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.