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"Nessuno può uscire", l'equipaggio "perduto" nell'inferno in fondo al mare

Nella prima estate del secolo, il sottomarino russo K-141 Kursk, orgoglio a propulsione nucleare della Flotta del Nord, scompare nel nulla. Serviranno giorni per individuarlo e anni per fare chiarezza sul misterioso "incidente" che scosse i gelidi fondali del Mare di Barents

"Nessuno può uscire", il sottomarino "perduto" nell'inferno in fondo al mare

"Ore 15.45. Qui è troppo buio per scrivere, ma ci proverò a tentoni. A quanto pare non ci sono possibilità di salvarsi. Forse solo dal 10 al 20 per cento. Speriamo che almeno qualcuno leggerà queste parole. Qui ci sono gli elenchi degli effettivi che adesso si trovano nella nona sezione e tenteranno di uscire. Saluto tutti, non dovete disperarvi". Il messaggio scarabocchiato in cirillico su un foglietto verrà ritrovato nella tasca di un ufficiale della Voenno-Morskoj flot, Dimitry Kolesnikov. Sono le ultime parole venute alla superficie da quelli che furono gli "eroi del sottomarino Kursk": 107 marinai sfortunati che trovarono la morte nelle acque gelide e poco profonde del Mare di Barents nell’agosto del 2000.

La ragione della loro dipartita, nascosta in un primo momento alla Russia e al mondo interno, è ancora avvolta da un velo di mistero. Un mistero che, come spesso accade, vede al centro di un ipotetico intrigo, armi segrete e venti da Guerra Fredda. Perché nonostante l’epoca sovietica fosse terminata, quel vento non aveva smesso di soffiare.

Mentre nei porti strategici della penisola di Kola, gigantesche installazioni di cemento armato che un tempo accoglievano alla fonda la più potente flotta del mondo, gli incrociatori lanciamissili e sottomarini nucleari della vecchia marina sovietica arrugginiscono - spesso cannibalizzati per mantenere operative le più necessarie unità schierate dalla giovane Federazione Russa - il fiore all’occhiello della Flotta del Nord, il sottomarino a propulsione nucleare K-141 Kursk (classe Oscar I/II secondo la classificazione Nato), si prepara a essere impegnato in una grande esercitazione navale che, secondo alcune fonti dell’intelligence di allora, dovrebbe mostrare a emissari cinesi la potenza dei nuovi sottomarini di fabbricazione russa e la letale capacità dei loro nuovi siluri. Era il 12 agosto.

Entrato in servizio nel 1995 e assegnato alla base di Severomorsk, il Kursk - che deve il suo nome alla città omonima dove l’Armata Rossa sconfisse in una battaglia decisiva l’esercito tedesco - è un sottomarino a propulsione nucleare lungo ben 154 metri con un dislocamento 13.500 tonnellate e un equipaggio di 107 tra ufficiali e marinai. Progettato per lanciare dai suoi tubi verticali missili da crociera armabili con testate nucleari (i П-700 Granit, ndr), trasporta una assortimento di siluri per la guerra sottomarina. Compresi - sebbene non sia mai stato certificato - dei siluri sperimentali che sfruttavano la “supercavitazione”: ossia l’effetto di una volta di gas che diminuendo l’attrito dell’acqua fa correre un siluro verso il suo bersaglio a una velocità mai registra prima. La missione di quel giorno per il Kursk, prevede lo sparare una salva di siluri contro un ipotetico bersaglio di superficie, rappresentato dall’incrociatore nucleare classe Kirov, Pietro il Grande, per poi dileguarsi nel mare di Barents mentre il resto della flotta gli avrebbe dato la caccia.

Esplosioni vere durante una guerra per gioco

Quel sabato mattina a nord della Russia il tempo era buono e il mare estremamente calmo. Anche se per il Kursk, che è in immersione già da ore e può rimanerci per intere settimane, navigando approssimativamente per sempre grazie ai due reattori nucleari che lo spingono, non fa alcuna differenza. Sono le 11.28 (le 7.28 secondo il fusorio Utc) quando vengono lanciati i siluri inerti per simulare l’attacco all’incrociatore Pietro in Grande. Nello stesso momento i sismografi norvegesi registrano una forte esplosione. Il Kursk intanto, secondo il resto delle unità russe, è già scomparso nell’abisso poco profondo del mare di Barents. Senza lasciare alcuna traccia penseranno i russi, come da copione nelle esercitazioni. Ma cosa è esploso là sotto?

Presumibilmente uno dei siluri veri che erano alloggiati nella sezione anteriore del sottomarino. L’esplosione che viene registrata è associabile a quella di 100 e i 250 chilogrammi di Tnt, e produce “un'onda sismica di intensità di 2,2 secondo la scala Richter”. Ma non l’unica. Appena 135 secondo dopo, ne segue un’altra, d’intensità “compresa tra i 3,4 e 4,4 della scala Richter”, una potenza misurabile tra le 3 e le 7 tonnellate di Tnt. Nonostante questo, per diverse ore nessuno si preoccupa del silenzio radio (e sonar) del Kursk - che non ha lanciato nessun tipo di richiesta di soccorso - e che sembra essersi limitato a dileguarsi in attesa di riprendere contatto radio alle ore 18, come previsto dai piani dell’esercitazione.

Quando le unità di superficie non hanno ricevuto né chiamate né risposte all'orario prestabilito, tra i comandanti della Flotta del Nord sorge il dubbio che il Kursk sia in difficoltà. Un aereo da ricognizione Ilyushin per la guerra antisommergibile, dotato di particolari sensori per rilevare la presenza di sottomarini, si alza in volo per perlustrare l’area e individuare una qualsiasi traccia del gigante dei mari che invece giace sul fondale, impotente e coperto da alcuni detriti prodotti dalla seconda esplosione, a circa 135 chilometri dalla costa di Severomorsk, in acque neutrali. Coordinate 69°40′N 37°35′E.

Equipaggio del Kursk

Si trova a una profondità esigua, di 108 metri. Qualcuno a posteriori ricorderà che, se si fosse posato in verticale, impuntandosi, considerata la sua lunghezza, le eliche e parte della sezione di poppa sarebbero riaffiorate in superficie. Il Kursk, come abbiamo detto, misurava 154 metri di lunghezza. Come era possibile dunque che non fosse stato individuato immediatamente dalla Flotta che, pur avendone perso le tracce, prima lo braccava e dopo addirittura ne era alla disperata ricerca? Il dubbio permane. Dovranno passare 24 ore prima che il relitto del Kursk venga localizzato dalla spedizione di ricerca che arriverà a contare oltre venti navi, il doppio degli aerei e ben tremila uomini. Tra queste era comparsa anche la Mikhail Rudnitsky, nave appoggio sottomarini della marina russa che svela agli occhi indiscreti degli osservatori occidentali - ci sono navi spia nelle acque di Barents - come doveva esserci stato qualche problema. Le ricerche frenetiche di quel genere, già viste in passato, possono significare solo una cosa: Mosca ha perso uno dei suoi sottomarini.

Era il 13 agosto e secondo gli esperti di Mosca, se ci sono dei superstiti come ci si augura, le riserve d’ossigeno possono durare fino al 18 agosto. L’importante è che non ci siano state perdite al reattore nucleare. Per quanto riguarda le testate nucleari dei missili non c’è problema, dicono, a bordo non ce n’erano. Nessuna fuga radioattiva viene registrata. Sarebbe stata una Chernobyl sottomarina altrimenti.

Un’operazione di salvataggio complessa

I superstiti ci sono. Secondo la storia sono 23, sigillati dai portelloni nello scompartimento numero nove. Tutti gli altri a bordo, equipaggio e specialisti imbarcati apposta per l’occasione (si parla di 118 persone in tutto, ndr) sono morti. A rivelare che qualcuno è ancora vivo là sotto, un messaggio con il segnale morse, un Sos, battuto con insistenza con un corpo metallico sulla paratia del Kursk. E poi quei biglietti rinvenuti a posteriori in ottobre, quell’ultimo diario di bordo del capitano Kolesnikov: “Ore 13.15 Tutto il personale dai compartimenti sei, sette e otto è stato spostato nel nono. Qui siamo in 23. Abbiamo preso questa decisione in seguito all'incidente. Nessuno di noi può uscire”. Lo Stato maggiore della Flotta del Nord annuncerà la presenza di quei sopravvissuti solo il 16 agosto però. Accendendo da un lato la speranza nelle famiglie dell’equipaggio e della Russia intera, che ora sapeva: un sottomarino giace sul fondo del mare. E dall'altra parte le polemiche legare al ritardo e a quella segretezza che ricordavano le vecchie psicosi sovietiche.

Come in ognuno di questi incidenti in fondo al mare, è sempre questione di tempo e di tecnologia per il salvataggio e il recupero: tecnologia che viene subito offerta al neo presidente Vladimir Putin, che è in villeggiatura a Sochi, ma gentilmente rifiutata. Secondo il Cremlino il Kursk contiene troppi segreti al suo interno per consentire a un inglese o a un americano di avvicinarsi. Meglio una tomba d'acciaio che una vaso di Pandora nucleare. E poi la grande Madre Russia ha tutto l’occorrente per recuperare il suo sottomarino. Il rimorchiatore d’altura Nikolay Chiker, che dispone di una fotocamera da immersione, ottiene le prime immagini dello scafo e vengono immediatamente convocate sul posto le capsule di salvataggio Pritz e Bester. Tutti e quattro i tentativi di avvicinamento e aggancio falliscono. Le condizioni meteorologiche si sono rese avverse. E poi ci sono quei detriti.

La situazione comincia a farsi disperata. Il capo della Flotta del Nord avverte Putin, che a sua volta accetta le offerta d’aiuto pervenute dall'estero. Saranno una nave speciale norvegese equipaggiata e un batiscafo di fabbricazione inglese, l’LR5, ad avvicinare il relitto del Kursk. L’aggancio avviene con successo, ma la situazione è impietosa: il sottomarino è completamente allagato e non è rimasto in vita alcun superstite. Sono tutti morti. Era il 19 agosto, l’ossigeno doveva essere finito nello scompartimento numero nove dove si erano asserragliati gli ultimi eroi del Kursk. Le ultime ispezioni avvengono il giorno 21. Questa consapevolezza straziante toccherà il cuore di tutta la Russia, le famiglie dei sommergibilisti vogliono delle risposte: sul corso degli eventi, sui segreti, sul ritardo dei soccorsi. Ma le risposte sono poche ed essenziali. Durante un noto talk-show dell’epoca, alla domanda "Cosa è successo al Kursk?”, il giovane Vladimir Putin risponderà semplicemente: "È affondato". Senza lasciare quartiere a ulteriori domande sull'accaduto.

Un duello in fondo al mare? Il mistero dei due sottomarini americani

Kursk

Se la versione ufficiale sull’affondamento del Kursk viene attribuita, anche in seguito al recupero del relitto con l’aiuto di una società norvegese, all’esplosione interna del combustibile chimico di un siluro difettoso, che si sarebbe propagata in tutta la sezione anteriore facendo allagare l’intero vascello; la presenza nell’area operazioni di due sottomarini d’attacco classe Los Angeles della Marina americana, lo Uss Memphis e lo Uss Toledo, ha sempre spinto diversi ufficiali della marina russa, e numerosi ricercatori, a ipotizzare un duello negli abissi scatenato da alcune manovre azzardate.

Il Kursk poteva aver urtato un vascello straniero in immersione. Uno dei due sottomarini americani che erano stati inviati nel mare di Barents per osservare l’esercitazione (come se da un sottomarino si potesse “guardare”), ma soprattutto per mandare un messaggio a Mosca: ci siamo e non approviamo. L’ipotesi di una collisione venne sostenuta al tempo ministro della difesa Sergeyev e dall'allora primo ministro Ilya Klebanov. Ma ancora peggio, venne ipotizzato che a seguito delle manovre aggressive che avevano condotto alla collisione, uno dei sottomarini americani avrebbe lanciato almeno un siluro Mark 48 sul Kursk, che per parte sua aveva “aperto i suoi tubi”, e dunque si preparava lanciare a sua volta, affondandolo.

Washington, dove era insediata l’amministrazione Clinton, negò sia l’ipotesi della collisione, sia quella assai più fantasiosa e scabrosa di un duello in fondo ai mari. Secondo gli americani, i loro due sottomarini erano a una distanza di cinque miglia nautiche. Altri esperti ricordano che se un sottomarino russo classe Oscar avesse urtato un sottomarino americano classe Los Angels (metà della stazza, ndr), a Washington avrebbero dovuto preparare 141 bare per i loro marinai. Secondo i sostenitori di questa secondo teoria, lo scontro segreto sarebbe stato insabbiato in cambio di un indennizzo di 10 miliardi di dollari a favore di Mosca. Un vecchio debito cancellato. Una conclusione presentata anche in libro di un vecchio ufficiale russo dal titolo esplicito, come quello di alcuni articoli di giornale che si susseguirono in Russia, “Chi ha sparato al Kursk?

La commissione d’inchiesta e la versione ufficiale

La commissione d'inchiesta guidata dal procuratore generale Vladimir Ustinov, concluse nel 29 giugno del 2002 che il sottomarino a propulsione nucleare K-141 Kursk era affondato in seguito all'esplosione causata dalla fuoriuscita di perossido d'idrogeno, propellente di un siluro difettoso, mentre era impegnato in una esercitazione. L'esplosione della sola carica avrebbe innescato una reazione a catena che investì l'intero sottomarino. I pochi superstiti compreso il capitano Kolesnikov, nelle tasche del quale vennero ritrovati i due biglietti con i messaggi testé riportati, sarebbero morti appena 8 ore dopo l'incidente. Asfissiati. La tempestività dei soccorsi non avrebbe fatto alcuna differenza.

Alle stesse conclusioni giunse in seguito un'equipe di ricercatori inglesi. Il foro concentrico presente della parte anteriore del relitto, poi recuperato, non era stato causato da un siluro avversario lanciato contro il Kursk da un ipotetico sottomarino straniero. La spia americana rilasciata a Putin in concomitanza degli eventi non aveva alcun legame con l'accaduto. Dopo oltre vent'anni dall'incidente però, in molti in Russia continuano a credere che nelle basse profondità del mare di Barents, come nei piani alti del Cremlino, contraddizioni, coincidenze e ritardi nella rivelazione dei fatti, come nella loro spiegazione, siano sentori di un tentativo d'insabbiamento.

Nonostante il velo di mistero che permane su ciò che accadde in quel 12 agosto del 2000, il presidente a vita Vladimir Putin aveva ragione: il Kursk è affondato.

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