Cronache

"L'abbiamo bendato e portato nella prigione del popolo": così il prete confessò Moro

Il brigatista pentito Michele Galati ha raccontato al giudice Guido Salvini come nella primavera del 1978 le Br portarono un prete per l'ultima confessione del leader dc

"L'abbiamo bendato e portato nella prigione del popolo": così il prete confessò Moro

Un sacerdote entrò nella ‘prigione del popolo’ per incontrare e confessare Aldo Moro durante i 55 giorni in cui fu prigioniero nel 1978 delle Brigate Rosse. Lo rivela il brigatista pentito Michele Galati durante una conversazione registrata con il giudice milanese Guido Salvini, che dopo aver indagato sulle stragi di Piazza Fontana e di Piazza Loggia, ha ricoperto l’incarico di consulente della Commissione parlamentare dedicata al rapimento e all’omicidio dello statista, organismo che ha cessato i suoi lavori nel 2018.

Nella conversazione col magistrato, che IlGiornale.it è in grado di svelare per la prima volta, Galati parlando della trattativa imbastita dal Vaticano per liberare Moro, indica in Don Antonello Mennini, nel 1978 viceparroco della chiesa di Santa Lucia a Roma, il sacerdote che incontrò lo statista

Galati – ... se lei vuole... Non lo dirò mai in Commissione... (Ride), però a lei glielo dico. Il prete è entrato, no?
Dott. Salvini – Mennini?
Galati – Eh sì.
Dott. Salvini – Anch’io son convinto che... Mennini...
Galati – No, no, no, io lo so di sicuro che lui è entrato, ha fatto la... la Comunione. So anche come è entrato.

Il brigatista, infatti, racconta anche le modalità dell’incontro: il sacerdote viene prelevato a Roma, bendato in maniera da non vedere né il percorso fatto né l’ubicazione della ‘prigione del popolo’. Una dinamica molto simile a quella rappresentata nel film Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. Galati, inoltre, aggiunge un particolare rilevante: il religioso entrò nella ‘prigione del popolo’ attraverso un garage.

Galati – ... in quel periodo lì, era il 16 marzo... aprile... insomma, siamo lì. È entrato con solo... con gli occhiali scuri e... e i cerotti, sugli occhi. Cioè, l’hanno preso...
Dott. Salvini – Ah!
Galati – ... l’hanno messo...
Dott. Salvini – Cioè, non sapeva lui in che casa andava?
Galati – No. L’hanno preso da una parte a Roma, l’hanno messo... gli hanno messo i cerotti e gli occhialoni scuri, grossi, grossi. Però da fuori non vedevi che...sì, c’era ‘sto... ‘sto... ‘sto...
Dott. Salvini – Che era cieco.
Galati – (…) sono entrati dal garage la cosa, però anche se lo vedevano era un prete. Perché sennò non c’era altro...
Dott. Salvini – Ma...
Galati – Che lui lì, è stato lì... un quarto d’ora, dieci minuti, e poi, sempre con la stessa trafila, l’han portato via.

Galati, scomparso nel marzo 2019, svela a Salvini anche la fonte della sua informazione: “Me l’ha detto Valerio”, cioè Valerio Morucci, leader delle BR condannato per la partecipazione al sequestro Moro. Nel prosieguo della conversazione, Galati conferma che il sacerdote confessò lo statista, cosciente che la sua sorte era segnata

Dott. Salvini – E ha fatto la Co... eh... l’ultima...
Galati – Mh...
Dott. Salvini – No, una Comunione, senza...
Galati – No, non ha fatto la Comunione. L’ha confessato.
Dott. Salvini – Ah.
Galati – Non... non è vero che... gli ha dato i Sacramenti.
Dott. Salvini – Perché poteva ancora salvarsi.

Nella conversazione inedita, il brigatista pentito aggiunge un altro tassello importante: la visita del religioso nella prigione del popolo era un’operazione ‘segreta’, nel senso che i vertici delle BR, soprattutto il Comitato Esecutivo nazionale, non ne erano a conoscenza. Un altro particolare che spinge Galati a precisare che non avrebbe mai fatto questa rivelazione in sede ufficiale

Galati – L’ha confessato perché lui voleva confessarsi, e... No, no, non chiedeva i Sacramenti. Hanno fatto una cosa che non lo sapeva neanche l’esecutivo.
Dott. Salvini – Una cosa privata.
Galati – Questo glielo dico a lei, e dopo questo...
Dott. Salvini – Sì, sì, e basta. Non lo dirà in... in aula, certo.

L’indiscrezione che Moro avesse incontrato un prete e che quest’ultimo lo avesse anche confessato, circolava da anni. Se ne diceva convinto, per esempio, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro degli Interni durante la prigionia di Moro, che nel 2008 indicò proprio in Don Antonello Mennini il sacerdote che aveva confessato il presidente della DC: “Raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi invece non lo scoprimmo. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini”. Quest’ultimo, già Nunzio Apostolico della Santa Sede in Bulgaria, Gran Bretagna e Russia, ha però sempre seccamente smentito questa circostanza. “Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessare Aldo Moro nei 55 giorni del sequestro - disse Don Mennini in audizione davanti alla Commissione Moro nel 2015 - nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento. Di un’eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulle circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. È che non ci sono mai stato”.

Ma chi era Michele Galati? E quanto sono attendibili le sue dichiarazioni? Veronese, classe 1952, Galati è stato condannato per gli omicidi del direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, Sergio Gori e del commissario della Digos di Venezia, Alfredo Albanese, compiuti nel 1980. Nel 1982 la scelta di collaborare con i magistrati diventando, assieme a Patrizio Peci, uno dei primi pentiti delle Brigate Rosse, di cui è stato esponente apicale della colonna veneta.

Le sue rivelazioni, dettate all’allora giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni e ai carabinieri dell’Anticrimine di Padova, struttura legata al generale Dalla Chiesa, portano all’arresto di circa quaranta tra militanti e fiancheggiatori dell’organizzazione ma soprattutto squarciano per la prima volta il velo su due degli elementi più controversi della storia delle Brigate Rosse: il cosiddetto Superclan, il gruppo fondato da Corrado Simioni che si iscisse dalle BR nei primi anni ’70, e soprattutto Hyperion, la scuola di lingua con sede principale a Parigi sospettata di essere una centrale del terrorismo internazionale ‘gestita’ dai servizi segreti di mezzo mondo. Non solo: Galati è stato il primo a parlare dello scambio di armi, avvenuto nel 1979 e gestito direttamente dal leader brigatista Mario Moretti, avvenuto tra le BR e l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina.

Nei suoi innumerevoli verbali, Galati regala spesso rivelazioni importanti che sono state sistematicamente sottovalutate o addirittura ignorate. È il caso di un verbale ‘dimenticato’ dei primi anni ’80, in cui il brigatista veneto fornisce informazioni preziose sulla dinamica della strage di via Fani. Informazioni preziose ma, incredibilmente, sottovalutate o addirittura ignorate. Il 22 marzo 1983, davanti al giudice istruttore Rosario Priore, racconta di aver partecipato nel novembre del 1979 a una riunione organizzativa per una rapina all’Ospedale Civile di Venezia. Erano presenti, racconta Galati, ‘pezzi da 90’ delle BR come Mario Moretti e Nadia Ponti ma anche Livio Baistrocchi e Francesco Piccioni.

A proposito delle difficoltà che sarebbero potute sorgere nell’azione, con le quattro guardie giurate dell’ospedale che avrebbero potuto aprire il fuoco, Moretti si rivolse ad alcuni compagni, tra i quali Baistrocchi, dicendo: “Anche a via Fani uno ci era scappato ma quelli di riserva lo hanno steso”. Il riferimento è all’agente Raffaele Iozzino, che scese facendo fuoco dall’Alfetta di scorta di Moro, prima di essere falciato dal fuoco brigatista. Ma che cosa voleva dire Moretti quando parlava di membri “di riserva” del commando? E quei soggetti, evidentemente sino ad oggi non identificati, erano organici alle BR? O erano elementi esterni? E sono proprio “quelli di riserva” i due che un testimone della strage, l’ingegner Alessandro Marini, vede far fuoco sull’agente Raffaele Iozzino, uscito dall’Alfetta della scorta di Moro?

Michele Galati non ha partecipato all’azione di via Fani ma, per i suoi trascorsi e i suoi rapporti di vecchia data con figure di vertice dell’organizzazione, sapeva molte cose anche sull’azione del 16 marzo 1978. Particolari inediti come quello citato nella conversazione tra il brigatista pentito e il giudice Salvini, che IlGiornale.it può presentare in anteprima. Parlando della logistica dell’azione, il brigatista veneto accenna ad un covo ‘di appoggio’, sinora mai emerso, vicino via Fani. Un covo che sarebbe dovuto servire in caso di mancata riuscita del blitz

Galati – Secondo me invece c’era un covo alternativo, io lo so che c’era, in caso andasse male... eh... il trasporto da via Fani, però non mi risulta che fosse alla Balduina.
Dott. Salvini – Noi l’abbiamo individuato in quella zona lì. Lì vicino a via Fani, 300...
Galati – Sì, sì, lo so.
Dott. Salvini – ... 400 metri.
Galati – No, conosco la zona, è... ma più è vicino, meno è... probabile. No, ce n’era un altro, che era tenuto da...
Dott. Salvini – Cos’era, il negozio?
Galati – No, era una casa di... di un’altra... ragazza. Io ho fa... eh, mi viene in mente e glielo spiego (…) Eh... era una delle amanti di Mario.
Dott. Salvini – Le amanti di Mario.
Galati – Eh, Mario ce ne aveva parecchie, eh?, non... non si faceva scrupoli. Ehm... non me la ricordo più qual era, forse la Caterina... Non me lo ricordo. Ehm... era previsto che se tra via Fani e coso ci fosse stato qualche casino verso... via Montalcini, c’era un ricovero, una roba del genere, però temporaneo (…)

Secondo Galati, dunque, le BR avevano una casa ‘sicura’ che faceva capo a una donna vicina a Mario Moretti.

Un altro dei punti oscuri di una vicenda che, dopo quasi 45 anni, riserva ancora molte sorprese.

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