L'America che Trump sta immaginando

Trump, questa volta, è riuscito a tenere in bilico pace e guerra. Un risultato che rilancia la vera domanda irrisolta: quale America profonda c'è davvero dietro di lui?

L'America che Trump sta immaginando
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Qual è la vera essenza di Donald Trump: è isolazionista o interventista? Se davvero si cerca una risposta al quesito, e non una conferma al pregiudizio, bisogna interrogare la storia americana e quella dei suoi Presidenti. Così solo si può capire il conflitto breve tra Trump e l'Iran. Almeno dalla metà del secolo scorso, quando la Storia bussa alla porta, il Presidente degli Stati Uniti d'America non è né isolazionista né interventista. È innanzitutto un comandante in capo di fronte alla propria responsabilità. Roosevelt prometteva ai suoi elettori che i ragazzi americani non sarebbero mai sbarcati in Europa. Ma dopo Pearl Harbor si alleò con Churchill e Stalin contro il Terzo Reich. George W. Bush si era presentato come il volto umano del Partito Repubblicano: compassionate conservatism. All'indomani dell'11 settembre, però, si trasformò nel martello dell'Occidente in una guerra asimmetrica. Barack Obama, Premio Nobel per la pace, autorizzò un record di raid con i droni e volle apporre il suo autografo sull'uccisione di Bin Laden. Resta imperitura, insomma, una regola del jacksonismo: l'America colpisce solo quando lo ritiene necessario ma quando lo fa, lascia il segno. Puoi anche presentarti come l'outsider che vuole tenere l'America fuori dal mondo. Ma se abiti alla Casa Bianca il mondo viene a cercarti. E non puoi far finta di niente. D'altro canto, non andrebbe dimenticato che già nel 2020 il Presidente Trump aveva fatto saltare il banco con l'Iran. Ordinò, allora, di vaporizzare a Baghdad il convoglio che scortava il generalissimo iraniano Soleimani, capo delle forze Qods, l'élite dei pasdaran. Stavolta ha fatto di più. Ha colpito l'infrastruttura bellica più importante, non un bersaglio simbolico: i siti nucleari, il cuore del regime. E di nuovo è esploso il dibattito sulla sua vera essenza: isolazionista o interventista?

Tutti i Presidenti, a tal proposito, hanno dovuto tener conto dei propri seguaci. E anche in questo Trump non fa eccezione seppure, per assolvere il compito, si sappia trasformare in una sorta di illusionista geopolitico. I primi ad applaudire l'operazione contro Teheran, infatti, sono stati i neoconservatori, riconoscendogli una risolutezza che nessun presidente aveva mostrato nei confronti degli ayatollah. Mentre a rimanere spiazzati, i fedelissimi MAGA: quelli convinti che questa non è la nostra guerra; che credevano nel disimpegno e si sono ritrovati a fare buon viso alla tregua con la Guida Suprema Khamenei. I trumpisti digitali - blogger, comici, youtuber, influencer - invece, hanno fatto una piroetta degna del Cirque du Soleil. Ieri tuonavano contro le guerre infinite, oggi inondano la rete di aquile fiammeggianti e bandiere al vento. La loro devozione è algoritmica: come ogni Re che si rispetti, Trump non sbaglia mai.

Non tutto, però, è così semplice. E tra le cose che per Trump lo sono meno va iscritta la relazione con il vicepresidente Vance. Ex marine in Irak, da sempre ostile a ogni nuova avventura mediorientale, "JD" è stato chiaro: nessun cambio di regime sotto questa amministrazione. Ma il Presidente, per tutta risposta, ha twittato un ironico: "Non è politicamente corretto usare il termine cambio di regime, ma se l'attuale regime iraniano non è in grado di rendere l'Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime?. Poi, col solito piglio, ha coniato l'acronimo MIGA: Make Iran Great Again.

Trump, questa volta, è riuscito a tenere in bilico pace e guerra. Un risultato che rilancia la vera domanda irrisolta: quale America profonda c'è davvero dietro di lui? Forse sono due. Una è quella raccontata da Vance fatta di reduci, fabbriche chiuse e comunità in frantumi, che sogna il riscatto nella start-up nation protetta dall'intelligenza artificiale e dal focolare tradizionale.

L'altra, più antica, pulsa sotto la Dichiarazione di indipendenza e vede nella libertà una missione universale. Il Presidente, evocando il 4 luglio di Teheran, le ha ridato voce. Non con un grande discorso come Lincoln a Gettysburg ma attraverso un semplice tweet.

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