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"Ho un'ombra dentro, smetto". Prandelli e il lato buio del calcio

Ha vinto lo stress. E Cesare Prandelli, 63 anni, un bresciano stregato da Firenze e dalla fiorentinità, uomo di sport prim'ancora che di calcio, ha riconosciuto pubblicamente la sconfitta

"Ho un'ombra dentro, smetto". Prandelli e il lato buio del calcio

Ha vinto lo stress. E Cesare Prandelli, 63 anni, un bresciano stregato da Firenze e dalla fiorentinità, uomo di sport prim'ancora che di calcio, ha riconosciuto pubblicamente la sconfitta. Senza pudori, senza misteri, senza ricorrere alle spiegazioni da favole per bambini che spesso avvolgono storie banali di insuccessi. Prandelli si è ritirato dal contratto (vuol dire dimissioni, gesto insolito nell'ambiente, ndr) che aveva con la Fiorentina, società e squadra che nel cuore gli stavano e per le quali aveva scelto di tornare sulla panchina dei suoi tormenti recenti, dei suoi fiaschi (Mondiale 2014) e dei suoi successi (Europei 2012). L'ha fatto spiegando con eleganza e precisione con una lettera aperta destinata più ai tifosi della Viola che al grande pubblico del calcio italiano perché per loro aveva accettato di rimettere in gioco la sua carriera di allenatore e la sua vita pacifica. Ha scritto di suo pugno: «Per il troppo amore sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa dentro di me non andava. C'è un'ombra in me. La mia carriera potrebbe finire qui». Non è stata una vile fuga ma una onorevole e umana resa decisa per evitare che «il mio disagio condizionasse le prestazioni della squadra».

Ha capito tutto la sera di Benevento-Fiorentina, la partita della resurrezione, 4 a 1 il risultato in una sorta di spareggio-salvezza con 3 gol di Vlahovic, il suo pupillo valorizzato e lanciato. Invece di vivere quel successo con gioia, ha accusato una crisi d'ansia. Era successo anche ad Arrigo Sacchi, altra epoca storica, stessi sintomi, appena ritornato sulla panchina del Parma dove aveva cominciato la sua brillante e rivoluzionaria carriera di allenatore. Succede, allora. Bisogna accettarlo. Specie quando lo stress ti assale per un eccesso di coinvolgimento emotivo e di amore. Già perché Cesare Prandelli aveva deciso di rimettersi in gioco nella città che considera la sua patria, convinto di poter rispondere alla mozione degli affetti con risultati prestigiosi. Invece si è fermato dinanzi agli artigli di Ibra e del Milan. E sono tornati gli incubi raccontati in modo essenziale: «Mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono». E cioè una persona piena di buoni sentimenti, passata attraverso un dolore indicibile (la morte della moglie) e per quel lutto abbandonò la panchina della Roma per dedicarsi agli ultimi giorni di Manuela.

Non è una sconfitta passeggera. Cesare ha colto un altro segnale dall'ombra scovata dentro. «Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui», la confessione pubblica. Seguita non da rimpianti ma da una spiegazione didascalica: «Forse questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più». Non è una disputa calcistica. È il tipo di vita in discussione. Il treno del calcio va troppo veloce. E lui, Cesare Prandelli, uno col quale prenderesti un caffè chiacchierando di libri letti, di film visti e di vacanze da organizzare, ha deciso di scendere alla fermata del cuore, Firenze Santa Maria Novella, a due passi dalla sua casa in centro. «Sicuramente sarò cambiato io, il mondo va più veloce e penso sia arrivato il momento di non farmi trascinare più da questa velocità». La Fiorentina ha dato la notizia «con enorme dispiacere» augurandogli di ritrovare «serenità ed energie». Hanno richiamato Beppe Iachini, l'allenatore col cappellino per centrare la salvezza.

E per far sapere a Cesare che la sua sconfitta non ha fatto danni.

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