Il latte che il mercato ci impone di bere

Viaggio nel mondo degli allevatori. Situazione al limite del paradosso. L’assedio dei costi della crisi e delle importazioni senza regole

Il latte che il mercato ci impone di bere

Presa tra due fuochi, la zootecnia soffre. In Italia e in Puglia dove pure resiste una storica tradizione produttiva per quel che riguarda il latte. La situazione è di vera e propria emergenza, per esempio, nella Murge (la zona collinare della Puglia centrale, ndr). Da un lato i costi, dall’altro le importazioni. Tanti gli allevatori che “mai come quest’anno” soffrono una crisi acuta.

I prezzi non riescono a coprire i costi produttivi, il carico fiscale è sempre più insostenibile, così come la volatilità dei costi delle materie prime.

“Bisogna trovare soluzioni perché si verifichi una ripresa del settore, cercando per esempio di sponsorizzare al massimo il latte fresco.” Esordisce così, Angelo De Filippis , produttore pugliese di latte. Continua: “Ho già assistito a momenti difficili del settore zootecnico, ci sono fasi in cui i prezzi sono altalenanti, ma la situazione congiunturale va avanti da sei mesi è la peggiore che abbia mai visto.”

C’è poi l’emergenza importazioni. Secondo i dati di Coldiretti, in Puglia, si registrano 1.939 allevamenti che producono 3,6 milioni di quintali di latte bovino a fronte dei 2,7 milioni importati dall’estero, ai quali si aggiungono 35mila quintali di prodotti semi-lavorati (cagliate, caseine, caseinati) stranieri utilizzati per fare prodotti lattiero-caseari poi venduti come prodotti freschi made in Puglia.

“Il latte estero può essere francese o tedesco, oppure – spiega l’allevatore Angelo De Filippis di Massafra in provincia di Taranto - provenire da altri produttori che si sono affacciati sul mercato comunitario come la Romania e l’Ucraina. Sono paesi dell’est europeo dove pare non ci siano delle normative così serrate come in Italia. Dicono che in Ucraina le mucche vivano allo stato brado, che ogni famiglia abbia una vacca, che il latte venga raccolto, ma senza grande rispetto delle norme igieniche. Si tratta di paesi che distano due-tre mila chilometri dalla Puglia, pertanto il latte deve ricevere un trattamento chimico-termico particolare perché non fermenti. Una cisterna ha bisogno minimo di 24- 36 ore perché possa raggiungere l’Italia. Quindi c’è già un trattamento a monte, perché il prodotto superi il viaggio senza rovinarsi. Mi chiedo, perché non utilizzare il latte locale che è fresco e nel giro di due-tre ore può raggiungere i vicini caseifici?”

Un interrogativo plausibile se si pensa che, secondo fonti di stampa, in soli dieci anni in Puglia hanno chiuso circa 3.800 stalle con un conseguente crollo di oltre il 58% del patrimonio zootecnico pugliese.

“Una stalla che chiude sicuramente non riapre più perché ci vuole passione, sacrificio e dedizione per portare avanti questo lavoro. – risponde amareggiato De Filippis e continua - Non è un lavoro di routine perché si vive a diretto contatto con gli animali.”

Il problema, come detto, non riguarda solo la Puglia “E’ un momento difficilissimo per il comparto per la congiuntura di mercato e la pressione competitiva altissima – dichiara infatti in una nota stampa, Luigi Barbieri, presidente della Federazione Nazionale Produttori Latte bovino di Confagricoltura. L’associazione di categoria ha voluto un accordo tra Abi (Associazione Bancaria Italiana) ed il ministero per le Politiche agricole. L’accordo, a favore degli allevatori italiani, prevede trenta mesi di sospensione dei pagamenti sui mutui sottoscritti a favore degli allevamenti a valere del Fondo Latte: una misura che consentirà alle imprese in crisi un’immediata liquidità”.

Perché, però, il governo non cerca di agevolare i produttori italiani, locali? “Perché è stato santificato il mercato – risponde deluso De Filippis, “E’ la grande produzione che impone i prezzi, ma non sono la stessa cosa la grande produzione e il piccolo allevatore locale. La grande produzione parte da una filiera importata che ha un prezzo spiazzando tutti.”

C’è un altro problema che l’allevatore ha rilevato a IlGiornale.it. Quello delle etichettature.

“Sull’etichetta c’è scritto solo il codice di produzione, cioè dove è stato lavorato il latte, ma non la sua provenienza.” Il rischio è che si venda per fresco ciò che non lo è.

Per questo, “il consumatore può aiutare il mondo zootecnico – come conclude De Filippis - comprando latte o latticini dai caseifici locali di fiducia oppure, se si reca nei negozi della grande distribuzione, deve sempre leggere attentamente l’etichetta e cercare di evitare di comprare il latte a lunga conservazione perché è una bevanda trattata, ben lontana dal latte fresco”.

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