"L'emergenza può uccidere la nostra libertà"

"L'emergenza può uccidere la nostra libertà"

Libertà di critica. Cospirazione. De-globalizzazione, rigorosamente con il trattino. Tre parole per un vocabolarietto liberale ai tempi del coronavirus. Tre parole per allargare la riflessione oltre i temi del contagio e della caduta del Pil, i grandi imbuti in cui è stata incanalata la discussione in questi giorni difficili. Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni e professore di Storia del pensiero politico allo Iulm, prova a oltrepassare l'orizzonte corto della quotidianità: «Le misure di questi giorni hanno un costo in termini di Pil e un costo in termini di libertà».

Ma sbaglio o non se ne parla?

«Esatto, il tema è fuori dai radar. La logica dell'emergenza tende sempre a comprimere la libertà, perché si tratta di situazioni estreme».

Momenti in cui dovrebbe prevalere l'unità nazionale?

«Attenzione: lei chiama in causa i politici e i politici hanno già di per sé una certa tendenza a trasformare tutto in un'emergenza».

In pratica a semplificare?

«La situazione ideale per un politico è quella in cui si possono promuovere iniziative e progetti costi quel che costi, cioè senza tenere in conto ciò a cui si deve rinunciare».

Quando ci sono le epidemie non si può andare tanto per il sottile.

«Assolutamente. Ma una vita nella quale non ci si può muovere ha assai poco di libero. È opportuno accettare le limitazioni necessarie ma non rassegnarsi alla loro eternità. Per questo è bene preservare una delle libertà essenziali di cui godiamo, la libertà di criticare il governo, anche in momenti così critici».

Ma le polemiche non aumentano la confusione?

«Dagli inviti alla cautela a non disturbare il manovratore il passo è breve. Certo, c'è un problema».

Quale?

«In questi frangenti l'opinione pubblica tende a credere alle cospirazioni».

Perché?

«Perché accettare che la nostra vita sia messa a rischio da un virus è molto più difficile che pensare che ci siano delle multinazionali cattivissime. Multinazionali che naturalmente stanno facendo ammalare tutti per venderci il vaccino. Quando le cose vanno male abbiamo bisogno di dare la colpa a qualcuno».

Cosa cambierà dopo questa crisi?

«Intanto credo sia improbabile che la frenata si limiti a frazioni di punto di Pil, sarà ben peggiore. E sul manifatturiero peserà la de-globalizzazione».

La fine del mondo senza barriere?

«Diciamo subito che la de-globalizzazione ha la sua manifestazione politica più rilevante nei movimenti cosiddetti sovranisti che sarebbe bene chiamare nazionalisti».

Ma che c'entrano i sovranisti con il coronavirus?

«La nostra prosperità dipende in larga misura dall'elevato grado di divisione del lavoro che abbiamo raggiunto».

Che cosa vuol dire?

«I nazionalisti raccontano un mondo nel quale a spostarsi sono i prodotti: l'olio italiano contro l'olio tunisino».

Non è così?

«Il grosso dello scambio internazionale non è dato da prodotti che raggiungono gli scaffali del supermercato, ma da cose che servono per fare altre cose. Il fatto che l'industria automobilistica tedesca regga è essenziale per il manifatturiero del Nord Italia. E proprio questo fenomeno - il fatto che un prodotto è l'esito di complesse catene di cooperazione internazionale - ha avuto lo straordinario effetto di calmierare i prezzi, consentendo anche a persone con un reddito medio-basso di avere accesso a un tenore di vita molto superiore a quello soltanto di trenta o quaranta anni fa».

Adesso?

«Nel breve queste catene di cooperazione possono spezzarsi perché alcune componenti provenienti dalla Cina sono prodotte, a causa del rallentamento di quell'economia, in misura inferiore a quanto sarebbe necessario. Ma in qualche misura a questo fenomeno si può ovviare: le aziende cercheranno altri fornitori».

Le

Borse?

«Le Borse in questi giorni stanno prezzando questo fenomeno. Ma queste catene di cooperazione possono spezzarsi per sempre se l'esito politico della crisi è un ritorno ala chiusura, la fine della società aperta».

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