Cronache

L'esodo giuliano-dalmata: "Volevano farci perdere l'identità italiana"

Alla fine della Seconda guerra mondiale oltre 300mila italiani abitanti dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia scappano dalle loro terre per sfuggire alla violenza dei partigiani del maresciallo Tito

L'esodo giuliano-dalmata: "Volevano farci perdere l'identità italiana"

"Ogni volta che chiudo gli occhi, vado a dormire a casa mia". Anita Derin fissa le fotografie dalle sua infanzia e, con la voce rotta dall'emozione, racconta il suo esodo. Aveva 12 anni quando è stata costretta a lasciare la sua città, Capodistria, per sfuggire alla violenza dei partigiani del maresciallo Tito. "Sono arrivati gli slavi, hanno incominciato a uccidere", spiega Anita. "Lì era diventato pericoloso. Non abbiamo potuto fare altro che scappare".

"I militari hanno occupato la mia casa, mangiato il mio cavallo. Diverse volte sono stata imprigionata: o perché avevo un bel vestito, o perché andavo in giro a fare fotografie con la mia Vogtlander". Anita oggi ha 83 anni, abita a Trieste e nel cuore porta i ricordi di tutta la sua infanzia (guarda il video).

Ma Anita è solo una piccola goccia nel mare. Alla fine della Seconda guerra mondiale oltre 300mila italiani abitanti dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia scappano dalle loro terre. Decine di migliaia di vengono uccisi nelle foibe o deportati nei campi di concentramento titini. "Tito faceva i suoi interessi. Voleva farci perdere l'identità. A noi veniva cancellata l'identità italiana", racconta Giorgio Gorlato, esule istriano. "Sono scappato con mia madre e mia sorella in Friuli. Mio padre invece è rimasto a Dignano. Una notte i partigiani hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non si è saputo più nulla di lui".

L'accoglienza

Anita come Giorgio. Bambini costretti a scappare e a iniziare una nuova vita lontano dalle loro case e spesso anche dalle loro famiglie. "Quando siamo arrivati in Italia, non siamo stati accolti bene - racconta Anita -. Sia a scuola che sul lavoro. Una volta ho senito una mamma dire a figlio che stava facendo i capricci: 'Se non stai zitto, chiamo gli esuli'. Neanche fossimo bestie". "Non è stato facile - afferma Giorgio -. Siamo stati malvisti: noi eravamo o fascisti o comunisti. C'è stata poca empatia. Venuti in Italia siamo stati per molti anni ignorati".

Il Magazzino 18

Per accedere al Magazzino 18 percorriamo alcune centinaia di metri in auto. Attorno ci sono soltanto vecchi edifici. Di quelli consumati e logorati dal tempo. Di quelli che ancora hanno impressi il rumore dei morti e lo strazio dei vivi. E qui, nel vecchio porto di Trieste, al Magazzino 18, c’è quello che resta degli esuli italiani. Appena scendiamo dall’auto, quel numero, 18, sbatte dritto davanti a noi. Sta impresso su quella facciata corrosa dall’umidità e dalla salsedine, come i ricordi dei nostri connazionali costretti a fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, dopo che il maresciallo Tito, il 10 febbraio 1947, assegnò queste terre alla Jugoslavia.

Qui i nostri connazionali hanno portato le loro cose, quelle che rimanevano, cercando un appiglio dal quale ripartire. Le loro case, infatti, furono sventrate, razziate e derubate dai titini. Dentro fa freddo, un freddo umido e le masserizie sono ancora poste così, come gli esuli le avevano messe. Si vedono piatti, stoviglie, tazzine, vecchie e logore tovaglie, mobili, letti, sedie su sedie, vestiti ingialliti, scarpe, intere scatole di
bottoni, vecchi giornali, libri e anche occhiali da vista.

Ora il Magazzino 18, divenuto famoso grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi, è diventato una sorta di "museo" che apre proprio la settimana del 10 febbraio.

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