Cronache

Lettera di un esule di seconda generazione

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Stefano Selem, figlio di esule e profugo dalmata

Lettera di un esule di seconda generazione

Dai Pelasgi all'Illiria, dall'Impero Romano, con l'arena di Pola che venne costruita ancor prima dell'anfiteatro Flavio (Colosseo), al palazzo di Diocleziano a Spalato, dalla Serenissima alle repubbliche marinare di Ragusa (la bella) e della Poglizza, dall’antica Perasto, famosa nella storia dell’Adriatico sia per i suoi cantieri navali che – soprattutto – per la frase di lealtà alla Serenissima pronunciata dal Capitano Giuseppe Viscovich: "Ti con nu, nu con ti".

Ancora dai due papi dalmati San Caio e Giovanni IV, alle citazioni Dantesche nel De vulgari eloquentia (in cui anche l’istriano vien menzionato quale fonte di un linguaggio diffuso in un'unica regione)… la storia dei territori Istriani, Giuliani e Dalmati parla italiano. Per troppo tempo si è accomunato il ricordo del dramma che ha colpito i territori Istriani, Giuliani e Dalmati - alla fine del Secondo conflitto mondiale – alla politica, con diverse sensibilità e con diversi approcci.

E se oggi quel dramma ha trovato nelle Istituzioni e nell'istituzionalità del "giorno del ricordo" il doveroso momento di pietà e commemorazione, tendendo ad una memoria pacificata e condivisa, ancora poco si fa e si sa della storia dell’italianità di quei territori.

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È ora di cessare definitivamente questa visione, per portare alla luce non solo il ricordo di quelle drammatiche pagine consegnata alla storia delle violenze e della barbarie umana (già a partire dal trattato di Rapallo del 1920, di cui lo scorso anno cadeva il centenario), occorre fare di più, occorre guardare con occhi di rispetto e carichi di sete di sapere, quella parte storica che vide questi territori italiani nella cultura, ancor prima della creazione dell’Italia come entità Stato; che vide molti, italici e slavi, credere nella nazione dalmata, dove, per citare le parole di monsignor Francesco Carrara (1849) che immaginava la nazione di Dalmazia quale ponte culturale fra la Slavia e l’Italia, “l’italiano non istudia di italianizzare lo slavo, né lo slavo di slavizzar l’italiano”.

Il mio pensiero va oggi, da figlio di esule e profugo Dalmata, ai miei cari ed a tutti i miei fratelli Istriani, Giuliani e Dalmati, alle vittime delle foibe, degli annegamenti e dell’esodo, ma va anche alle nuove generazioni, perché sia definitivamente dismessa ogni faziosità ed immotivato odio e sia colmata quella parte di ignoranza, di cui molto hanno colpa testi censurati, per far spazio alla cosciente consapevolezza della grandiosità di un popolo che da un confine all’altro dell’Adriatico segnò la storia di italianità.

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