L'Europa sbugiarda il Conte millantatore

Il premier sbandiera un'Italia unita politicamente e pronta a ripartire. Ma non ci casca nessuno

L'Europa sbugiarda il Conte millantatore

Tutto rinviato a metà luglio. La partita di andata sul «recovery plan» da 750 miliardi, che dovrebbe ridare un futuro all'Europa e all'Italia in ginocchio per il virus, finisce in pratica con un faticoso zero a zero. I capi di governo della Ue si rivedranno tra un mese, questa volta faccia a faccia, non in videoconferenza. Cosa si sono detti ieri? Sono aperti i negoziati. Sediamoci a un tavolo e vediamo se si trova un modo per dare corpo a questo piano. Tutti a parole dicono che è necessario. Quello che bisogna definire è il resto: quando, quanto, come e a quali condizioni. Qui cominciano i problemi. La squadra delle «formiche» non si fida. Dice che quei soldi devono essere in gran parte un prestito e vanno restituiti. Ogni Paese li prende e li mette sul bilancio dell'Unione Europea, ma nessuno deve fare il furbo. Non vanno spesi a casaccio, ma destinati a investimenti e opere strutturali. Nessuno pensi di usarli per clientele e assistenzialismo.

Le «cicale» chiedono che buona parte di quei soldi siano invece a fondo perduto. Dovete fidarvi di noi. Non vogliono, poi, che l'Europa con la scusa del piano venga a mettere becco sulla gestione finanziaria dei singoli Stati. Non finiremo come la Grecia, commissariata. L'Italia è considerato, dalle «formiche», il Paese simbolo delle «cicale».

Ora ieri è accaduto qualcosa di piuttosto grave. Il nostro premier, Giuseppe Conte, ha raccontato a modo suo quello che sta accadendo in Italia. Si è venduto in pratica gli «Stati generali dell'economia» con un certo ottimismo. Ecco cosa ha detto. «L'Italia ha già avviato una consultazione nazionale con tutte le forze politiche, produttive e sociali per elaborare un piano di investimenti e riforme che ci consenta di non ripristinare la situazione pre-Covid 19 ma di migliorare il livello di produttività e di crescita economica». Cosa c'è che non va? L'accordo con tutte le forze politiche è una fantasia. Il dialogo con l'opposizione è a zero e gli stessi partiti della maggioranza non sono allineati. Non a caso Conte evita di aprire una discussione in Parlamento e rimanda il voto sul piano europeo alle calende greche. Le forze produttive sono sull'orlo della disperazione. Basta chiedere a Confindustria e affini. I sindacati si aspettano risposte. Nessuno, soprattutto, ha capito bene quale sia il progetto su cui tutti dovrebbero essere d'accordo. Conte in pratica ha raccontato un'Italia che non c'è. Va bene. È una trattativa e si bluffa, ma visto che il punto cruciale di questa storia è la fiducia partire con mezze verità non aiuta.

Mark Rutte, severo premier olandese, ha quasi finto di crederci: «Guardo con favore allo spirito che sta ispirando Conte sulle riforme». Applausi. Quando gli hanno chiesto se però questa è un'apertura si è rinserrato nelle sue posizioni. Olanda, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia hanno detto che non possono accettare il piano. Servono cambiamenti. La signora Merkel, con la Germania che a luglio guiderà il semestre europeo, sta in mezzo a mediare. «Non credo - dice - che i fondi saranno disponibili prima del 2021». È lei però, con il supporto francese di Macron, a spingere per trovare un'intesa al più presto. L'idea, la speranza, è chiudere tutto prima di settembre. Qui in gioco ci sono tante cose. L'ambizione, che non è un difetto, del cancelliere tedesco. Angela vuole lasciare un segno visibile nella storia, mostrare la sua vocazione, che non è quella di un politico a galla da molto tempo, ma di una statista, che si ritrova a guidare l'Europa in una delle sue ore buie. «L'Unione Europea - ricorda a tutti - sta affrontando la recessione più grave dai tempi della Seconda guerra mondiale».

Questa, però, non è solo la partita della Merkel. È un crocevia sul futuro e sul destino dell'Europa. Lo sanno le «formiche» e le «cicale». Se non si arriva a un accordo non ha più alcun senso stare insieme. Va giù tutto. La storia dell'unione delle nazioni europee diventa a quel punto solo una finzione. Una bugia che ci stiamo raccontando. Questo discorso, perlomeno, è chiaro a tutti. Poi da qui parte la trattativa, il braccio di ferro, e ognuno dovrà mettere sul piatto la sua autorevolezza, la reputazione, la dignità, i suoi progetti. È un capitale di credibilità che è fatto di passato, di presente e di futuro. L'Italia ci arriva con la sua «grandezza». Non è un Paese qualunque. È uno dei fondatori e ha un passato, anche dal punto di vista economico, che pesa. La reputazione non è più quella di un tempo. Il debito pubblico è un peccato che gli altri non ci perdonano. Qui si può discutere di travi negli occhi degli altri, ma di fatto quella macchia ci fa apparire deboli e inaffidabili. La fiducia, che qui è tutto, ce la giochiamo sul futuro. Come lo immaginano gli italiani? Non a chiacchiere, ma mettendo sul tavolo una strategia: investimenti, costi, risorse, sacrifici, per arrivare dove. È una questione di scelte e di visione. Il tirare a campare, il morto a galla, è tutto quello che non ci serve.

Gernot Bluemel, ministro delle Finanze austriache, mostra con chiarezza il senso del non fidarsi. «Non ci accolliamo il debito italiano».

Poi chiede agli italiani come pensano di spendere i soldi: «Se li usate per il bonus vacanza proprio non ci siamo».

La situazione è questa. Le «cicale» vogliono i soldi senza condizioni. Le «formiche» li considerano un prestito. Giuseppe Conte, al momento, prova a vendere tappeti.

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