Coronavirus

L'incubo di un'estate senza condizionatori

Si ha l'impressione che la fase due, o come diavolo volete chiamare la ripresa della libertà di intraprendere, sarà una favolosa occasione per i talebani della decrescita.

L'incubo di un'estate senza condizionatori

Si ha l'impressione che la fase due, o come diavolo volete chiamare la ripresa della libertà di intraprendere, sarà una favolosa occasione per i talebani della decrescita. Ci sono molti indizi che portano a pensare che da maggio in poi, dietro la paura del contagio, le nostre attività riprenderanno non tanto in prudenza, ma in sofferenza. In un'alleanza straordinaria tra scienziati o, meglio, burocrati sanitari, e sindacati. Ieri il comitato tecnico scientifico, che ricorda i comitati di salute pubblica giacobini, ha fatto capire che i locali pubblici non dovranno essere condizionati. L'aria condizionata diffonde il contagio. Beh, insomma, l'idea che il virus venga soffiato dall'aria fresca nella nostra gola e nella nostra bocca è suggestiva. Ma per i tecnici del condizionamento è del tutto falsa. Lavorare al caldo, in fondo, è una buona idea: ci riporta a qualche decennio fa. Quando le prime arie acondizionate (all'epoca si chiamavano così e non climatizzatori) venivano installate nelle automobili e poi nelle case e si assisteva al rito favoloso del giretto in macchina per prendere un po' di fresco.

A parte le battute, dietro la «nuova normalità» c'è un impasto di romantico ritorno alle radici e cultura anti-industriale. Una follia.

Ci vorrebbe qualcuno che rivendicasse la bellezza di vivere al fresco anche d'estate senza pensare che sia un sopruso verso chissà chi. La nostra civiltà solo recentemente ha avuto acqua corrente in casa, elettricità per l'illuminazione, frigoriferi per gli alimenti e motori a scoppio per viaggiare. Non c'è nulla di cui vergognarsi. C'è molto da difendere.

Il comitato scientifico mi sembra un po' come quello di Indietro tutta di Arbore, insieme con i sindacati, sta mischiando le carte. Occorre non fargliele servire.

Ma si rendono conto, questi signori, cosa stanno studiando per bar, ristoranti, aerei, trasporti e piccole attività industriali? Con l'idea del rischio zero (che non esiste in natura), gran parte delle attività commerciali e produttive di questo Paese sarà messa in ginocchio. Almeno ci dicano che sono misure a tempo.

Abbiamo talmente spaventato gli italiani che, probabilmente, saranno i primi a richiedere queste nuove normalità. E allora diciamolo chiaro e tondo. Al posto delle nostre botteghe e dei nostri ristoranti, mettiamo dei capillari punti di smistamento di cibo, bevande e prodotti. Ma veramente dovremo sanificare i capi di abbigliamento negli showroom? Ma davvero possiamo pensare che ci possa essere solo un individuo in quaranta metri quadri di negozio?

A coloro che ci leggono e, comprensibilmente, pensano che sia necessario per contenere il contagio, ricordiamo solo che in questa maniera non potremo che aumentare i prezzi e licenziare una parte del personale. Vedete, la contrapposizione non è tra impresa e salute, la contrapposizione è tra paura e lavoro. Ogni giorno la commessa che si reca nel suo negozio assume dei rischi, con gli attuali standard, piuttosto elevati: il primo è quando apre la portiera della sua auto. Senza pensare al contatto con il pubblico e l'igiene di ciò che mangia a pranzo. Il rischio è nell'attività umana, anzi, nella nostra stessa condizione di essere umani. Dobbiamo affrontarlo, non negarlo.

La nuova normalità farà sì che un taglio di capelli non potrà che essere più costoso, un pasto al ristorante non potrà che essere più caro, un caffè al bar non potrà che essere più salato. Una bella condizione per aumentare le disuguaglianze, che fino a ieri erano considerate, a torto, l'emergenza di questa civiltà. La fine delle low-cost, per i viaggi aerei, non compromette i viaggiatori di business, ma ragazzi e pensionati che giravano il mondo con poche risorse. Restiamo tutti a casa, ordiniamo online e poi nei nostri centri delle città costruiamo dei bei magazzini impersonali per lo smistamento degli ordini.

Non stiamo esagerando. È la reazione a questa pandemia che è esagerata. E, ovviamente, ce ne renderemo conto tra poco, quando, dopo l'iniziale entusiasmo salutista delle prime settimane, ci capiremo che in molti hanno preferito non aprire, e quei pochi che ci sono riusciti sono diventati esercizi commerciali per eletti. E, dunque, ci sarà una reazione del mercato e dei consumatori, ma il rischio è che il delicato equilibrio economico su cui già prima ci reggevamo, cada del tutto: e chiudere una serranda è molto più facile che aprirla.

Turismo, commercio al dettaglio e manifatturiero, tre eccellenze italiane, rischiano di pagare un prezzo altissimo, non solo per la prevedibile caduta della domanda, ma anche per le nuove leggi sanitarie, che si sommeranno a quelle sul lavoro, a quelle burocratico-amministrative e a quelle fiscali.

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