Coronavirus

L'ora zero dell'incubo Covid

A distanza di un anno la notte in cui il coronavirus si svelò a tutto il Paese. Ecco cosa è successo all'ospedale di Codogno

L'ora zero dell'incubo Covid

Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19.

«Ventiquattro infermieri e nove medici: non mi dimenticherò mai il momento in cui mi sono reso conto che il personale, nessuno escluso tranne me, era da mettere in quarantena - racconta il direttore del pronto soccorso di Codogno, Stefano Paglia - improvvisamente erano diventati tutti contatti stretti di pazienti a cui avevamo appena scoperto il Covid-19. Non c’era alternativa alla chiusura. In diciotto ore abbiamo trasformato il dipartimento di emergenza di Lodi per reggere l’onda d’urto e lì ho trascorso i 104 giorni più lunghi e difficili della mia vita». L’Italia piomba nell’incubo il 20 febbraio quando, poco dopo la mezzanotte, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, dà notizia del primo contagio: Mattia Maestri, un 38enne della provincia di Lodi, risulta positivo al tampone. «Sono stato ricoverato per una polmonite - spiegherà mesi dopo in una intervista a Sky Tg24 - solo quando mi sono svegliato mi hanno raccontato cosa c’era in giro, cosa stava succedendo… e neppure nel dettaglio. Solo dopo ho capito la gravità di quello che stava succedendo intorno a me».

È da almeno una settimana che Mattia non sta bene. All’inizio pensa alla «solita influenza», ma presto capisce che c’è qualcosa che non va. La febbre, infatti, non passa. Il 18 febbraio, poco prima delle tre di pomeriggio, si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno e, quando le lastre evidenziano la presenza di una leggera polmonite, decide di tornare a casa. D’altra parte, il suo profilo non autorizza i sanitari a un ricovero coatto e così si limitano a prescrivergli un generico antibiotico. Nel frattempo, però, le persone con cui il giovane ricercatore dell’Unilever di Casalpusterlengo entra in contatto da quando ha contratto il coronavirus, continuano ad aumentare. Molte di queste sono proprio i medici e i pazienti dello stesso nosocomio.

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Alle tre di notte del 19 febbraio Mattia torna a farsi vedere in pronto soccorso: la polmonite si è fatta gravissima e ormai fatica a respirare. Nessuno sa dargli spiegazioni e la preoccupazione inizia a farsi sentire. «Può essere un caso di coronavirus», chiede Maestri a un operatore sanitario di passaggio al pronto soccorso. La risposta, letta col senno del poi, fa strabuzzare gli occhi. «Ensà nianche addu stà», gli risponde in dialetto. I medici brancolano nel buio ma, grazie all’intuito dell’anestesista Annalisa Malara, si riesce a capire cosa sta succedendo. È lei a prendersi la responsabilità di effettuare il tampone anche se la situazione non lo prevede. Se decidesse di seguire il protocollo del ministero della Salute, non arriverebbe mai a capire che Mattia ha contratto Covid-19. La circolare in vigore allora, quella emanata il 27 gennaio, corregge un’altra emanata solo cinque giorni prima e che invita a considerare caso sospetto chi «manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». Secondo le nuove linee del ministero della Salute, sono da considerarsi «casi sospetti» solo quelle persone con una infezione respiratoria acuta grave» che siano anche state in «aree a rischio della Cina», che abbiano lavorato «in un ambiente dove si stanno curando pazienti» colpiti dal coronavirus o che abbiano avuto contatti stretti con un «caso probabile o confermato da nCov». Alle prime domande dei medici, Mattia racconta di aver fatto soltanto «un viaggio a New York» e di non essere mai entrato in contatto con persone che hanno viaggiato in Cina. Solo il 19 gennaio la moglie Valentina, all’ottavo mese di gravidanza, racconta di una cena con alcuni colleghi di lavoro il primo febbraio. Uno di questi è il manager di una società di Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, che è rientrato dalla Cina il 21 gennaio. L’amico risulterà, poi, non essere il «paziente zero» che ha provocato il contagio nel Lodigiano, ma tanto basta alla Malara per decidere di battere strade eccezionali. «Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore», spiega l’anestesista di Cremona in una intervista a Repubblica. «Per aiutarlo ho pensato che anche io dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato». Sono «la rapidità e la gravità dell’attacco virale» a spingerla ad andare oltre. A metà mattina di giovedì 20 febbraio, quando ormai Mattia è in rianimazione, la 38enne decide di effettuare il tampone anche se, come abbiamo spiegato, il protocollo ministeriale non lo giustifica. Corre, quindi, a chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria che le scarica addosso qualsiasi responsabilità. «Ho scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva – ribadisce – l’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato da settimane».

Posto di blocco per coronavirus

Sin da subito l’impegno in prima linea non viene apprezzato da Roma che reagisce con piccata stizza a qualsiasi salto in avanti. Anche quando, come al nosocomio di Codogno, aiuta a bruciare i tempi e salvare vite in una situazione già di per sé drammatica. Succede così che, durante una trasmissione di Raiuno, il premier Giuseppe Conte riscrive completamente la realtà accusando «un ospedale» di aver così scatenato uno dei focolai. Il riferimento è appunto a Codogno. «C’è stata una gestione a livello di una struttura ospedaliera non del tutto propria, secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi – è la denuncia del presidente del Consiglio – e questo sicuramente ha contribuito alla diffusione». Un attacco che non solo fa infuriare i vertici di Regione Lombardia, ma che manca di rispetto a medici, infermieri e personale sanitario che, soprattutto all’inizio, si trovano a combattere contro il virus ad armi impari. Lo schiaffo di Palazzo Chigi sarà «riparato» il 3 giugno quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nominerà la Malara cavaliere al merito. All’ospedale di Codogno non sarà la sola a ricevere tale onorificenza: toccherà anche a Laura Ricevuti, medico del reparto medicina.

Il premier Giuseppe Conte

«Qui, all’ospedale di Codogno, abbiamo visto per primi il ‘paziente 1’ e il ‘paziente 2’, entrambi più giovani di me, in condizioni gravissime, intubati per sopravvivere - spiega Paglia - in quei momenti la nostra speranza era di contenere la diffusione della malattia e di blindarci per proteggere le grandi città, prima tra tutte Milano». È grazie a professionisti del calibro della Malara che si è riuscito a evitare che la pandemia dilagasse anche al Sud Italia e colpisse altre regioni. Grazie alla sua pervicacia, intorno alle 13 del 20 febbraio, il tampone di Mattia arriva agli ospedali Sacco di Milano e San Matteo di Pavia per essere analizzato e in serata, poco dopo le 20.30, una telefonata può fugare i dubbi dei medici dell’ospedale di Codogno che non riescono a curarlo con le medicine tradizionali. «Il paziente ha contratto il coronavirus», fanno sapere da Milano. In quel momento tutto cambia. In attesa che vengano effettuate le controanalisi da parte dell’Istituto superiore di sanità (Iss), i medici del piccolo ospedale di Codogno si fiondano a indossare le protezioni prescritte in caso di epidemia e gli accessi al pronto soccorso e tutte le attività programmate vengono interrotte «a livello cautelativo». «Medici e infermieri sono rimasti chiusi all’interno, in quarantena, continuando a lavorare», spiega il primario Stefano Paglia ricordando la decisione di rinunciare, «per tre giorni», a fare al personale sanitario i tamponi «perché erano esauriti e i laboratori del Sacco e del policlinico San Matteo di Pavia risultavano intasati». «Abbiamo deciso di considerarci tutti positivi, lasciando la precedenza dei test ai malati».

«Ho pensato molto dove possa aver preso il virus ma non ho la benché minima idea di dove possa essere accaduto - spiegherà più avanti Mattia - sia io che mia moglie, nelle nostre ricostruzioni, non siamo venuti a capo di un possibile punto di inizio». Nessuno lo capirà mai, nonostante gli ingenti sforzi messi in campo per riuscire a ricostruire tutti i movimenti dei Maestri. La Regione Lombardia si fionda subito a diramare l’allarme a tutta l’Italia: «Le persone che sono state a contatto con il paziente sono in fase di individuazione e sottoposte a controlli specifici e alle misure necessarie». L’effetto domino è ormai partito e non può essere arrestato. Anche la moglie di Mattia risulta subito positiva al tampone. E con lei anche un amico che fa sport con il marito. I due vengono immediatamente ricoverati al Sacco di Milano. Altre quattro persone, arrivate all’ospedale di Codogno nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, finiscono in isolamento perché presentano «quadri di polmoniti importanti». E ancora: i riflettori vengono puntati sul medico di famiglia che ha visitato il giovane il 17 febbraio dopo due giorni di febbre incessante e una collega dell’Unilever di Casalpusterlengo. Quest’ultima viene ricoverata nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Piacenza. Sin dalle prime ore appare chiaro che riuscire a mappare i contatti avuti dal «paziente 1» negli ultimi diciannove giorni e, quindi, tentare di contenere l’epidemia appare impossibile. Si parte dall’Unilever, dove Mattia lavora al centro ricerche. Alle 3 di notte, durante il terzo turno, alcuni lavoratori si fiondano al mezzanino dello stabilimento per cercare Stefano Priori che, oltre lavorare al reparto separazione dove si produce la materia prima per fare i detersivi, è il vice sindaco di Castiglione d’Adda. «Sabato pomeriggio (22 febbraio, ndr) – ci spiega – gli impiegati, che erano entrati in contatto con Mattia, sono stati convocati in infermeria ed è stato fatto loro il tampone. Il giorno dopo è toccato a tutto il resto della fabbrica». Il 25 febbraio arrivano gli esiti: su 350 persone, dieci risultano positive. «Alcuni di questi, dopo pochi giorni, hanno avuto la febbre – continua – e almeno un paio di loro sono rimasti ricoverati in ospedale per oltre un mese. Fortunatamente nessuno ha perso la vita…».

Tampone

Oltre agli affetti e al lavoro, si cerca tra gli eventi sportivi a cui ha partecipato Mattia nelle settimane prima dell’esplosione della malattia: due gare podistiche (quella delle «Due Perle» tra Santa Margherita Ligure e Portofino il 2 febbraio e l’altra a Sant’Angelo Lodigiano il 9 febbraio) e una partita di calcio con la squadra «Il Picchio di Somaglia» (il pomeriggio del 15 febbraio dopo aver partecipato a un corso con la Croce Rossa di Codogno). E ancora: una serata in birreria a Casalpusterlengo (il 4 febbraio) allarga il contagio ad altre tre persone. È una corsa contro il tempo. Si lavora senza sosta, come degli agenti sotto copertura, fino a ricostruire gli ultimi contatti prima che il 38enne si ammali e si chiuda in casa. È il 15 sera, dopo una cena con un paio di amici in un ristorante di Piacenza: la febbre inizia ad alzarsi e per Mattia inizia l’incubo.

Non appena il quadro è tracciato, sono 150 i «contatti stretti» da monitorare. Ma è uno sforzo del tutto inutile perché tutti i contagiati hanno avuto, a loro volta, una fitta serie di contatti da verificare. Per esempio Valenti, che fortunatamente è in maternità e non tiene più le lezioni nella scuola in cui insegna, frequenta un corso preparto e aiuta la madre in una erboristeria. Ben presto, ci si accorge, quindi, che il virus ha valicato non solo i confini della «zona rossa» nel Lodigiano ma anche quelli della stessa regione Lombardia. «Le indagini sul focolaio di Codogno sin da subito dimostrano che i casi si erano già propagati e che ormai erano arrivati troppo lontani», racconta una fonte all’interno della task force della Lombardia. «Ricordo ad esempio il caso della scuola agraria di Codogno, dove studiavano alcuni ragazzi della Valtellina e dove abbiamo trovato un gruppetto di casi positivi, sicuramente derivati dal basso lodigiano». Intanto un nuovo caso viene individuato all’ospedale civile di Cremona: si tratta di una paziente ricoverata cinque giorni prima nel reparto di pneumologia. A Vo’ Euganeo, un paesino in provincia di Padova, risultano positivi due anziani. Uno di questi, Adriano Trevisan, un 78enne ricoverato dieci giorni prima per altre patologie, muore all’ospedale di Schiavonia (Padova) la sera del 21 febbraio. E il giorno dopo si registra il primo caso a Torino, una persona che lavora in una azienda di Cesano Boscone. Sono giorni segnati dal caos. L’Italia si affida ancora ai dati forniti dalla Cina, che fanno segnare appena 2.360 morti su 77.662 contagi, e alle rassicurazioni del direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che su Twitter parla di contagi lievi nell’80 per cento dei casi, di contagi critici nel 20 per cento e di una mortalità al due per cento. «Poco più di una banale influenza», si affrettano ad assicurare anche stimati virologi.

Numeri e percentuali che ben presto saranno smentiti da quanto accadrà nel nostro Paese.

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