Cronache

"La mia latitanza dorata". Così la ballerina è sparita dopo l’omicidio

Katharina Miroslawa ha raccontato la sua "latitanza dorata": condannata per l'omicidio di Carlo Mazza, si invaghì di Antonio Di Pietro in carcere

"La mia latitanza dorata". Così la ballerina è sparita dopo l’omicidio

Le dico francamente, Katharina: io spero proprio che lei sia colpevole. Non solo per non perdere fiducia nella giustizia, ma perché si rabbrividisce al solo pensiero di come si possa sopportare una pena senza colpa”. Queste sono alcune delle parole con cui Franca Leosini ha accolto nello studio di “Che fine ha fatto Baby Jane?” Katharina Miroslawa, ex ballerina esotica oggi imprenditrice nel settore vinicolo, che fu accusata e condannata per essere la mandante dell’omicidio dell’imprenditore Carlo Mazza. Lei si è sempre professata innocente, ha sempre affermato di non aver voluto la morte di Mazza, l’uomo che amava e che aveva stipulato un’assicurazione di un miliardo che vedeva lei come beneficiaria: dice che, se fossero stati i soldi la sua mira, l’imprenditore le avrebbe potuto dare quello e anche molto di più.

Ad autoincolparsi dell’omicidio, senza però che questo portasse a una revisione del suo processo, è stato l’ex marito Witold Kielbasinski. E uno dei grandi rimpianti della donna è non aver compreso cosa stava accadendo. “Mi osservava di nascosto, ma lo faceva anche in precedenza. Era geloso”, ha spiegato a “Che fine ha fatto Baby Jane?”.

Il giorno in cui Mazza fu ucciso, Katharina si trovava ad Amburgo per stare con il figlio. Incontrò Witold e gli disse che stava per partire in vacanza con l’amante. Lui la spinse a chiamare Mazza, ma rispose la cugina, che le disse che l’uomo era morto per cause naturali - come in effetti fu stabilito all’inizio, prima che l’autopsia trovasse i colpi di pistola che l’avevano freddato. Ne fu sconvolta, e Witold rincarò: “Vorrei vedere, se fosse accaduto qualcosa a me, se avresti pianto così tanto”.

La latitanza

Katharina Miroslawa dovette affrontare diversi processi: inizialmente fu assolta per insufficienza di prove e alla fine condannata in qualità di mandante dell’omicidio. Ma lei non andò in carcere: dopo la sentenza si rifugiò prima a Vienna e poi a Praga. “Mi è stato ridato il passaporto e nessuno mi ha mai fermato - ha spiegato - Io non volevo andare in carcere, volevo fare la mia battaglia anche da fuori. Ho mantenuto sempre il contatto con il mio avvocato, abbiamo lavorato sulla revisione del processo. Ero una che doveva scappare dall’ingiustizia. Non tornavo in Italia, ero prudente. Certo, non c’era grande impegno, non ero la latitante più pericolosa d’Italia”.

Durante la sua latitanza, ha vissuto 8 anni senza lavorare, guardando 3 tv collegate a satelliti, aveva un’identità segreta, quella di “Margherita”, un’austriaca, per viaggiare, andava al ristorante e usciva con le amiche. È stata perfino al tavolo con alcuni membri dell’ambasciata italiana in Cecoslovacchia, e Giovanni Minoli l’ha intervistata con una troupe di 6 persone. È stata dai genitori a Vienna, ha viaggiato in Repubblica Ceca, Polonia, Tunisia, Grecia, Repubblica Dominicana. “Era una latitanza dorata sì, ma a costo di sperare di vivere un giorno tranquillamente e andare in giro a viso scoperto”, ha commentato.

A un certo punto cambia nuovamente identità e al confine con l’ex Jugoslavia, durante la guerra in Kosovo, viene fermata e fatta scendere dal treno, credendo che fosse una profuga. Ma non fu quest’episodio, in cui fu salutata dai veri profughi kossovari con “arriva la mannequin”, a tradirla.

Il carcere

Katharina Miroslawa fu infatti tradita da un divano, pagato con la carta e consegnato a domicilio. È stata in carcere fino al 2013 e ora è libera. Ha svolto in carcere molte attività, tra cui spettacoli, sartoria e studi teologici. E della sua esperienza ricorda anche una cottarella con il giudice Antonio Di Pietro. “Il giudice delle Mani Pulite, che metteva in carcere mezza Italia, voleva aiutarmi”, ha detto. Di Pietro subì per questo dal suo ordine un provvedimento di censura per comportamento deontologicamente scorretto. Non ha dubbi però quando le viene chiesto chi avrebbe voluto incontrare una volta fuori di prigione.

Nella sua mente c’è solo un nome: “Carlo”.

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