"Mio padre nella bara con indosso la camicia nera"

Il racconto di Andrea Cangini, direttore del Quotidiano Nazionale: "Per tutti i 72 anni che seguirono non smise mai di sentirsi un reduce"

"Mio padre nella bara con indosso la camicia nera"

Un articolo che ha già suscitato scalpore. Andrea Cangini, direttore del Quotidiano Nazionale, oggi ha dato il via ad una serie di interventi nella pagina 'Il caffè' del Carlino sul tema dell'8 settembre visto come "la morte della patria". E ha raccontato di come suo padre Franco, ex direttore del Resto del Carlino e del Tempo, prima di morire avesse espresso il desiderio di essere sepolto nella bara vestito con la camicia nera.

"Prima di morire, la scorsa settimana, mio padre ha lasciato un'unica disposizione: essere vestito in camicia nera. Era così che voleva presentarsi al suo funerale e così è stato", scrive il giornalista. "Mi sono chiesto che senso avesse. Il suggello di un' esistenza, è stata la risposta. Quando la guerra fu persa e il fascismo si dissolse, mio padre aveva dieci anni. Era un bambino. Eppure per tutti i 72 anni che seguirono non smise mai di sentirsi un reduce. Non che l' abbia mai teorizzato, non che ne avesse fatto una retorica. Tanto meno una carriera. Ma si capiva. Non credo si sia trattato di una questione politica, la questione fu semmai etica e in un certo senso estetica. Il crollo rappresentò, evidentemente, un trauma. Un trauma nazionale".

Secondo Cangini (e altri intellettuali) l'armistizio proclamato dal maresciallo Badoglio l'8 settembre del '43 "simboleggia 'la morte della Patria'". "Si sbriciolà allora, - continua il direttore - l'idea stessa dello Stato. Si abbandonò ogni coerenza, si sdoganò ogni furbizia. Gli alleati diventavano nemici, i nemici diventavano alleati, i fascisti diventarono antifascisti. La nazione ne uscì disorientata e iniziò allora una furibonda e mai cessata guerra contro sé stessa. Una guerra civile. Il Fascismo, per vent' anni simulacro e camicia di forza di una parvente identità nazionale, si ritrovò improvvisamente senza padri né figli. Padre e figlio di nessuno".

Per questo suo padre, che aveva appena dieci anni, decide di sentirsi sempre un reduce. Era come "lavare un' onta", come "testimoniare con la propria vita che la coerenza è possibile, che è possibile per la coerenza farsi largo persino in Italia". Ecco, l'Italia. "Mio padre aveva, o fingeva di avere, fede in una cosa che sapeva benissimo che non esisteva né mai potrà esistere davvero. L' Italia vive nelle parole dei poeti e si polverizza nella prosa degli italiani. Però c' è stato anche chi per recitare questa poesia è morto, e quelle 'belle morti' hanno alimentato il sogno" da cui non voleva essere risvegliato.

Cangini si chiede cosa significasse per suo padre essere fascista. "'Fascista', forse, perché una guerra si finisce con chi la si è cominciata". In molti, come ricorda il giornalista, al funerale del padre ne hanno riconosciuto il valore di buon giornalista, capace di avere "distacco critico" di fronte alle vecende del mondo. Ma distacco non significa non avere un'idea. "Apparteneva a quella moltitudine spesso silenziosa di italiani che non riusciva a rimuovere il trauma del '43", continua Cangini.

"Tanti intellettuali, politici e comuni cittadini hanno avvertito e ancora oggi avvertono il disagio di quella frattura nazionale. Una frattura scomposta. È gente che si è rifugiata in un passato idealizzato o sono sentinelle che suonano la tromba per richiamarci al giudizio, rimosso, su quello che siamo?"

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