Nati per dividersi

Nati per dividersi

La storia della sinistra va studiata come un manuale di biologia. Le cellule si scindono, si accartocciano, formano l'embrione con blastula, morula e poi chi se ne va di qua e chi se ne va di là. Oggi ci risiamo anche perché la scissione segue una periodicità come un ciclo mestruale storico. Ma probabilmente questa volta il partito che si trova alla vigilia della scissione è ormai in menopausa e nella pozzanghera darwiniana in cui sopravvive lontano dal mondo, completerà la sua fine per spiaggiamento, come le balene.

La storia è sempre la stessa e valeva ieri per i socialisti e poi per i comunisti ibridati con i democristiani: il corpaccione centrale che vuole fare e restare al governo, viene rigettato dalla periferia «di sinistra» alla quale manca l'ossigeno perché ha perso il lavoro.

Il partitone socialista che affrontò la prima guerra mondiale aveva fra i suoi leader di estrema sinistra Benito Mussolini, che entrava e usciva di galera come sovversivo e che aveva fatto sdraiare le donne sui binari delle tradotte che portavano all'imbarco per la guerra di Libia. Mussolini, come Palmiro Togliatti e Pietro Nenni e tanti altri di sinistra, voleva la guerra e fu per questo cacciato dal Psi: scissione. Poco dopo la corrente socialista dei comunisti si staccò al Congresso di Livorno del 1921 e se ne andò per formare il Partito comunista d'Italia. Lenin s'infuriò con la dirigenza del Psi perché aveva espulso Mussolini che il leader russo considerava l'unica speranza rivoluzionaria per l'Italia. Poi, dopo la fine della seconda guerra mondiale e con l'inizio della Guerra fredda, i socialisti presero a scindersi con disinvoltura. Per primo ad andarsene dal Partito socialista fu Giuseppe Saragat nel 1947 a Palazzo Barberini: se ne andò con la parte anticomunista e filoccidentale, formando il partito socialista democratico che poi avrebbe governato per decenni con la Dc. Se ne andarono per piccole scissioni gruppi e gruppetti che seguitavano però a ruotare intorno al partito socialista, pervasi di nostalgia. Un caso più unico che raro fu quello di alcuni comunisti, guidati da Antonio Giolitti (figlio del primo ministro Giovanni e considerato da Togliatti un gioiello di famiglia) che lasciarono le Botteghe Oscure dopo la repressione della rivoluzione ungherese del 1956 per approdare nel Psi nenniano. In quel Psi che aveva sede in via del Corso a Roma si parlava continuamente di scissione. Ricordo personalmente un alterco fra il segretario nazionale Pietro Nenni con Sandro Pertini che minacciava la scissione se non gli fosse stato riconosciuto d'ufficio un sei per cento di delegati al congresso. Eravamo nella tipografia dell'Avanti! in vicolo della Guardiola a Roma. Pertini, in preda all'ira abbandonò la riunione. Allora Pietro Nenni, rivolgendosi a Riccardo Lombardi, commentò: «Il nostro Sandro ha una testa fatta di solo osso».

L'importante scissione del Psiup (sigla che in origine apparteneva a tutto il partito socialista nel primo dopoguerra) la ricordo bene perché c'ero anch'io. Non volevamo che i socialisti andassero al governo anche perché la fame di poltrone superava persino quella degli stenti. Allora non lo sapevamo, ma il Psiup era totalmente finanziato dall'Urss. Anche il Partito comunista subì una scissione importante e mai rientrata: quella del gruppo del Manifesto di Rossana Rossanda ed altri intellettuali raffinatissimi, messi alla porta come cani. Il Partito (sempre chiamato così, senza aggettivi) dalla fortezza di Botteghe Oscure emetteva sentenze di morte politica, quasi sempre con successo. Quando l'intellettuale comunista Elio Vittorini, che aveva creato la prodigiosa rivista Il Politecnico se ne andò dal Partito, Palmiro Togliatti commentò: «Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato». Negli anni Sessanta e Settanta il Pci subì un'emorragia di piccole scissioni man mano che sulle piazze si articolava il «movimento» fatto di cani sciolti, marxisti immaginari che non volevano perdere l'opportunità di giocare alla rivoluzione, come succedeva del resto anche in Francia dove i movimentisti furono bollati dai comunisti col nomignolo riduttivo di «gruppuscules», gruppuscoli. Allora a Parigi una folla oceanica di giovani sfilò sotto le finestre del Pcf scandendo lo slogan «Nous sommes les gruppuscules, siamo noi i gruppuscoli». In Italia, il più scaltro e a parole flessibile Pci manovrò per contenere e riassorbire i dissidenti di sinistra che spesso trovavano spazio nel Partito socialista, prima di Mancini e poi di Craxi. Erano ormai anni di scissioni a mano armata, di autonomia operaia, di contiguità con le Brigate rosse e un flusso sotterraneo ma non troppo alimentava questa contiguità. Il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro nel 1978 permisero al Pci di battere il pugno sul tavolo, fare la voce grossa della linea intransigente voluta anche dalla Dc e lasciare crepare Aldo Moro come prezzo della ritrovata unità con la Dc. Questo gesto di forza, per quanto sciagurato, consolidò il Partito e portò al calor rosso lo scontro fra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi, che era a favore della trattativa.

Poi l'imprevista caduta dell'impero sovietico dal 1989 al 1992 scatenò una nevrosi scissionista e identitaria senza precedenti. Il partito di Achille Occhetto - detto Akel ai bei tempi in cui guidava i giovani comunisti - si sentì costretto, per l'imbarazzo e anche la vergogna, ad abrogare il vecchio nome e le attrezzerie agricole dei simboli, iniziando un percorso minato di nomi nuovi e politica vecchia sempre alla ricerca di un'identità, fino all'incontro e alle nozze con la Margherita, frazione filocomunista cattolica della spolpata Dc. L'innesto, come tutti prevedevano, non riuscì mai del tutto perché le reciproche crisi di rigetto furono molte e continue, anche se faticosamente riassorbite.

I comunisti a questo punto non sapevano più dire chi erano, dove andavano e anche da dove venivano. Il Pci era morto, ma anche il nuovo partito non si sentiva troppo bene. Fu allora che entrò in scena il dinamico adolescente fiorentino. Tutti capirono subito che l'obiettivo strategico e inconfessato di Matteo Renzi era l'espulsione dei conservatori comunisti e la costruzione di un partitone di centro che avrebbe brucato erba sugli stessi pascoli del centrodestra e in particolare di Forza Italia. Questo il progetto. La scissione è stata il Dna, o se si preferisce il peccato originale del partito nato e guidato da Renzi allo scopo di trovare la soluzione finale per la sinistra riottosa e nostalgica, usando la rottamazione. Tutto il vecchio Pci, da Veltroni a D'Alema, si ritrovò rottamato con poche speranze di sopravvivenza. Il resto è cronaca di questi giorni.

L'incidente di percorso del referendum ha scompigliato il calendario ma non i piani di Renzi che ha sempre contato sull'uscita della sinistra.

Cosa che allo stato, sembra fatta, anche se il tatticismo e il calendario possono ancora produrre sorprese e piccoli ritardi.

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