A Roma la domenica non si sa dove andare a mangiare. Sembra impossibile ma è così: forse i romani che nei giorni feriali abitualmente escono a cena sono gli stessi che nei giorni festivi abitualmente escono dalla città, quindi è inutile che le buone tavole restino aperte, per i turisti dei pullman scoperti (scoperti anche d'inverno? scoperti anche d'inverno!) bastano i bar, le pizzerie, le gelaterie. Un cattolico praticante non può certo condannare chi rispetta il riposo domenicale, si limita a constatare la lunga serie di serrande abbassate e telefoni muti. In ordine alfabetico (pescando fra i ristoranti di diverso genere che piacerebbe provare o riprovare): Agata e Romeo chiuso, Armando al Pantheon chiuso, Checchino chiuso, Enoteca La Torre chiuso, Oliver Glowig chiuso, Pipero al Rex chiuso Un amico indigeno che se ne intende consiglia Cesare al Casaletto, zona Colli Portuensi che Google Maps avvisa situarsi fra Monteverde Nuovo e la Magliana (ehm). Stimando Pasolini ma non il pasolinismo, non dovendo fare sopralluoghi per un ennesimo film o fiction su banditi lontani nel tempo o forse vicinissimi, trovandosi per giunta dall'altra parte della città, niente Casaletto. E quindi Testaccio, rione intra moenia eppure storico luogo di scampagnate anche letterarie (Casanova, ovviamente Belli ).
Roma per molti aspetti si mantiene fedele al suo passato e per quanto di campagna al Testaccio ne sia rimasta pochissima, a parte i due ettari inagibili del monte eponimo, i romani lo considerano ancora luogo di bisbocce e ai ristoranti conviene farsi trovare aperti la domenica. Perciò l'Incontentabile prenota da Flavio al Velavevodetto. Sulla seconda parte del nome circolano almeno tre versioni, o leggende, quale sia quella giusta solo Flavio lo sa, ma chi l'ha visto Flavio. I camerieri sono gentilissimi, giovanissimi, velocissimi (una cameriera anche bellissima), però non proprio informatissimi. Chiedendo se i pannelli bianchi sul soffitto sono fonoassorbenti, visto che a locale pieno anzi strapieno stranamente non c'è frastuono, se ne ricava un sorriso disarmato. Vabbe', godiamoci la buona acustica senza fare troppe domande. La carta dei vini non c'è più. L'Incontentabile è certo che in qualcuna delle tante entusiastiche recensioni (guide, siti, perfino un articolo di Carlo Petrini) la carta dei vini venisse citata, quindi c'era. Ma stavolta non c'è e approfittando del vuoto informativo cercano di rifilargli il rosso della casa. Vade retro. «È biologico!». Vade retro di più.
Quindi deve alzarsi, sbuffando, per scegliere una bottiglia nel locale attiguo, dove trova un solo rosso davvero locale ossia il Cesanese Tenuta della Ioria di Casale della Ioria (la sera prima, sempre a Roma, aveva bevuto un altro Cesanese di livello, l'Hernicus di Coletti Conti, altra etichetta di una regione che non ama il proprio vino: da Arcioni, bar collegato alla fornitissima enoteca di piazza Crati, all'aperitivo sbicchierano solo Chardonnay, Sauvignon, Traminer, Prosecco, Lugana, e va bene che col chilometro zero si sta esagerando ma insistere col chilometro mille è provinciale). La carta delle vivande per fortuna c'è ancora. Purtroppo è scomparsa l'agognata minestra in brodo di arzilla, citata invece nel sito. Vabbe', godiamoci intanto le animelle coi carciofi. La porzione è da Aldo Fabrizi, o da Maurizio Mattioli per dire un altro attore romano sovrappeso, però contemporaneo. Il piatto è piccolo, tutti i piatti di Flavio sono piccoli proprio come si usava nelle trattorie di una volta, e data la solenne quantità di cibo è inevitabile il montarozzo. Proprio come nelle trattorie di una volta. La forma chissà per quale ragione, o sragione, è ovale: che il piatto ovale abbia rappresentato negli anni sessanta (periodo di riferimento di questa cucina nostalgica) quello che oggi rappresenta il piatto quadrato? Ovvero una moda al contempo supponente e insensata? Animelle e carciofi formano un insieme gustoso sebbene un po' bagnato (il sughino lento era un'altra caratteristica delle trattorie che furono).
E tutto è tagliato molto, troppo piccolo, così all' Incontentabile tornano in mente, per reazione, le animelle integre, le animelle supreme che un giorno ad Albano Laziale gli vennero cucinate espresse da Alessandro Ferracci, oggi cuoco a domicilio (con la moglie Sabrina forma la Banda della Pajata). Discrete le puntarelle, difficili da mangiare perché il micropiatto ostacola l'uso delle posate. I rigatoni all'amatriciana sono casalinghi e forse, per i romani, sentimentali, serviti in piatto stavolta rotondo però sempre striminzito. Pezzo forte anzi fortissimo è la coda alla vaccinara, monumento della cucina testaccina, il filone della cucina romana sviluppatosi intorno al vecchio macello e basato sul quinto quarto. Per l'occasione il piatto (ancora ovale, accidenti) è inevitabilmente più grande, dovendo contenere vertebre colossali, immerse coi loro carnicci in un lago di sugo acido. Terribile visione per i gastritici e per i portatori di camicia bianca (non è posto da renziani in carriera, Flavio, per non macchiarsi non basta proteggersi col tovagliolo, ci vorrebbe uno scafandro).
Dopo aver sollevato la bocca dal fiero pasto, non ancora pago l' Incontentabile ordina un altro cavallo di battaglia del locale, il tiramisù al bicchiere, dolce che sfida la legge della incompenetrabilità dei corpi: quante uova sono riusciti a farci stare? Bisogna dare atto: esistono molti tiramisù più leggeri (ci vuol poco), ma pochi tiramisù altrettanto ghiotti. Il pranzo si conclude col nocino di Colazingari (liquoreria di Alatri), diversissimo dal nocino emiliano, molto meno denso. E con l'ombra di un rimorso: forse bisognava dar retta all'amico indigeno che se ne intende.
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