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Non chiamatele baby gang: sono teppisti (e noi i complici)

Speravo che l'anno numerato 24 di questo terzo millennio richiamasse festevoli incitamenti a 24.000 baci, che inaugurarono con il rock di Adriano Celentano gli anni '60, e restano il record dei preliminari (bei tempi)

Non chiamatele baby gang: sono teppisti (e noi i complici)

Speravo che l'anno numerato 24 di questo terzo millennio richiamasse festevoli incitamenti a 24.000 baci, che inaugurarono con il rock di Adriano Celentano gli anni '60, e restano il record dei preliminari (bei tempi). Auspicio mancato. Non se n'è ricordato nessuno. Peccato. Era un bel modo di essere ragazzi, ci diciamo in tanti con nostalgia. Magari tornasse quel mondo. Alt. Ne siamo proprio sicuri? Idealizzare il tempo e la giovinezza che fu, come se fosse stata un'immensa aiuola fiorita di viole e gigli è istintivo, e però trattasi di un rifugio incantato ma fasullo.

Altro che 24.000 baci di beata gioventù. Baby gang, ripetono tutti, e confermano sondaggi sull'allarme per la sicurezza che attraversa la testa del popolo. Quasi che sia stato un abracadabra di divinità maligne a suscitare dal nulla entità mai apparse sulla terra. Fatto sta che l'anno nuovo pare sia stato fatto subito prigioniero dalla criminalità di ragazzini capeggiati da quello anziano del gruppo, di solito un o una quindicenne.

Prima ancora che lamentarmi delle bande giovanili, mi dà noia la definizione del fenomeno in lingua inglese. Che bisogno c'è di una lingua forestiera? D'accordo che l'America ci è maestra in tutto, e che le prime masnade di brufolosi con il colpo in canna hanno imperversato nel Bronx, e sono state cantate da cantanti detti rapper cresciuti nelle giungle urbane di New York e poi copiati di sana pianta nelle periferie dell'hinterland ex-industriale. Ma usare (...)

(...) il vernacolo anglosassone mi dà l'idea sia la classica furbata per dare la colpa delle cattiverie che spuntano sotto casa e magari dentro le nostre stesse mura domestiche dal mondo ostile e marcio, cioè tutti da condannare tranne noi. Replicando la tiritera perenne che vede quel che accade oggi come qualcosa di mai visto, una malvagità che non è nostra figlia ma è tutta d'importazione, e se ci è germogliata in tinello e in quello dei nostri discendenti probabilmente è una nuova specie simil-umana seminata dalle scie chimiche di astronavi giunte da un'altra galassia.

Balle. È noto e arcinoto, infatti, che le combriccole malavitose di brufolosi sono sì composte per la metà da immigrati seconda generazione, ma sempre più spesso sono popolate da virgulti di stirpi benestanti nutriti di tutto, del necessario e del superfluo, ma non dell'essenziale. Che cosa sia bene, forse non l'abbiamo mai saputo neppure noi. Ma ci era comunque trasmesso in casa, attraverso regole che non comunicavano solo divieti ma qualcosa che era il senso del bene e del male, la pietà per gli altri, e per qualunque essere vivente. La scuola veniva dietro, gli oratori pure. Ma perché reggeva il primo ambito, che magari pomposamente veniva definito la «cellula fondamentale» della società. Se si ammala, se si sfalda, è un casino. Ora c'è una specie di cedimento strutturale.

Di chi la colpa? Ci viene bene puntare il dito contro Internet. I dodicenni accedono al porno elettronico dove è abrogata qualsiasi idea di trasgressione. E che dà un'idea tutta sbagliata di quel che si aspettava con ansia di sperimentare, e trasforma il desiderio in ossessione e desiderio di potere. Basta la finisco con la sociologia da strapazzo. Mi fermo a una considerazione semplice. C'è l'abitudine di incolpare il cosiddetto web come se le dita che premono i pulsanti dei cellulari e dei tablet, e i polpastrelli che scorrono sul video non appartenessero a personcine che abitano in casa con noi, e mangiano (talvolta) al nostro stesso tavolo, mentre noi siamo occupati in tutte le faccende del mondo meno che parlare con loro, magari lasciandoci ipnotizzare da servizi del telegiornale che neppure ci interessano, magari dedicati alle imprese proprio di bande di giovanottelli e alle statistiche loro dedicate, con psicologi che ci dicono cosa fare. Ma il problema è che ascoltiamo gli esperti che sono lì a istruirci dandoci un ulteriore pretesto per lasciare la discendenza intenta tranquillamente a sguazzare nelle pozzanghere della vita, tanto a loro che importa del parere degli adulti che non badano mai a loro.

Gabriele Albertini, il miglior sindaco che Milano abbia avuto, lancia l'allarme alla metropoli diventata la capitale immorale di questa rete di malviventi ultra-minorenni. Ha ragione. Lo dicono i numeri. C'è stato un incremento spaventoso di queste aggressioni di banditelli. Aveva appena vantato questo triste primato ambrosiano, che subito la Toscana si è data da fare per saltare più in alto della Madonnina. Leggo su La Nazione che nella casa del popolo di Montelupo, e alla bocciofila di Castelfiorentino, gli avventori che hanno assistito a sassaiole e sfide tra fazioni di garzoncelli rimpiangano i tempi passati. Se a Milano è di moda fermare i passanti toccandoli al petto e salutandoli dando loro il cinque e toccandoli confidenzialmente sotto il collo per vedere se hanno la catenina d'oro e poi rapinarli in gruppo, a Viareggio si aggira la «baby gang dei limoni», specialista nel bersagliare da dietro le siepi i parabrezza delle auto di passaggio con agrumi utili a far deragliare le vetture fuori dalla carreggiata.

Questi fenomeni di piccola criminalità organizzata c'erano anche quand'ero ragazzino. Erano chiamati semplicemente teppisti. Poi venne il '68, e non è che le bande di katanga con le chiavi inglesi fossero estranee ai licei, o le cellule brigatiste allevate tra i comunisti fossero molto più anziane. Si è abbassata l'età, non si è mai abbastanza giovani per essere canaglie. Ma non diamo la colpa al lassismo dei tempi. È roba (anche) nostra.

Vittorio Feltri

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