
Che cosa può mai scrivere un osservatore del proprio tempo quando un personaggio bollato di continuo come nemico del popolo e del progresso, pernicioso alla libertà e alla democrazia, inetto e vanaglorioso, espressione di un'America isolazionista e gretta, ottiene un risultato politico ed etico di prima grandezza a migliaia di chilometri da casa sua? Forse servirebbe un pensoso saggio sul tradimento degli intellettuali. Ma poiché è stato già scritto più di un secolo fa, mi limiterò a qualche considerazione meno ambiziosa.
Sul ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sono state scritte migliaia di pagine. Il problema non è la quantità, ma la sicumera con la quale molti fra gli autori di quelle pagine hanno preteso di anticipare la storia. Fare previsioni è difficile, soprattutto sul futuro (la battuta è attribuita a Niels Bohr). Ma nella nostra epoca ansiosa di rassicurazioni gli analisti, spesso per presunzione o per farsi notare, non sono mai reticenti nel profetizzare. Vien da pensare agli storici di domani, alle risate che si faranno nel rileggere le nostre futurologie sgangherate.
Fare previsioni è difficile anche perché il trumpismo non è un fenomeno semplice da decifrare. Poiché nasce dal rifiuto del globalismo progressista, sa che cosa detesta ma molto meno che cosa vuole, al di là di un ovvio nazionalismo di fondo. In tanti si stanno affannando a dargli un contenuto, dai conservatori più classici ai tecnofuturisti, ma resta l'impressione che il suo vero contenuto sia Trump stesso, un individuo che ha fatto dell'imprevedibilità la propria cifra.
Non stiamo parlando del dittatore di uno staterello qualsiasi, poi, ma del Presidente della più antica democrazia del mondo. Che per quanto combatta la sua stessa burocrazia e voglia rompere coi comportamenti passati non può fare a meno di tener conto degli interessi nazionali americani. A tutela dei quali gli Stati Uniti non possono certo disinteressarsi del resto del Pianeta, Occidente incluso. Alla fine del secondo mandato di Trump, insomma, potremmo scoprire che ha cambiato la politica estera del suo Paese molto meno di quanto temuto o sperato.
Le migliaia di pagine che con tetragona certezza hanno predetto ogni mossa del Presidente si basavano in realtà, in larga misura, sulle convinzioni ideologiche dei loro autori. Ossia, nella maggior parte dei casi, su un'avversione viscerale nei suoi confronti. Avversione originata per altro da una premessa che proprio oggi mostra tutta la propria debolezza: Trump è stato rifiutato prima di tutto sul piano morale perché accusato di anteporre la forza al diritto e all'etica. Ma è grazie alla forza che oggi ha potuto imporre la pace in Medio Oriente, conseguendo così un risultato morale enorme. Il messaggio è di difficile digestione non soltanto per la cultura progressista, segnata a fondo da decenni di moralismo, ma anche per un europeismo troppo a lungo convinto che l'Unione potesse diventare un esempio etico e normativo, su scala globale, rinunciando alla politica di potenza.
Trump non era un mostro ieri e non è diventato un santo oggi. Il futuro dell'accordo su Gaza è quanto mai incerto.
Il trumpismo resta poi un fenomeno ambiguo, figlio di una profonda trasformazione storica che vede un vecchio mondo dissolversi e uno nuovo prendere faticosamente forma. Ogni transizione di questa portata porta con sé enormi rischi e incertezze. Converrebbe a tutti muoversi con una certa prudenza, non soltanto nel mondo politico ma pure in quello intellettuale.