P erché gli alpini piacciono tanto, ci sono così simpatici? Non perché sono un corpo antico (lo sono di più i carabinieri); né per la lunga penna nera sul cappello, che allora ne hanno di più e più belle i bersaglieri; né perché nati per difendere i confini delle Alpi da francesi e austroungarici erano per antonomasia i nostri primi scudi dal nemico, tanto che il loro motto è «Di qui non si passa»: oggi, casomai, è un ruolo che spetta all'aviazione e alla marina. Paradossalmente scaldano il cuore perché ci appaiono meno militari (e dunque meno militareschi) di tutti gli altri corpi. E non vi offendete, giovani e vecchi alpini, non è mica una critica. Si sa che avete dato prova di valore in tutte le guerre, e che il vostro spirito di sacrificio è leggendario. Se ci apparite meno marziali dei vostri colleghi è perché in montagna non si sta in formazione come sul ponte di una nave, non si procede al millimetro come in aeronautica, non si marcia allineati e composti come in fanteria. No, voi siete per dovere, s'intende amabilmente scomposti, felicemente individui, come quando ognuno cerca il sasso giusto per avanzare su un sentiero scosceso. E portate lo stesso spirito nelle vostre oceaniche scusate il termine inappropriato invasioni delle città. Vedervi avanzare in massa, a parte la parata del 2 giugno, non fa pensare alla guerra, ma alla gita di un vasto gruppo di amici. Si canta, si beve e si fa festa. Già, la storia dell'alpino che beve aiuta la vostra popolarità. È la bevuta allegra che porta al canto, non quella della depressione o dell'ira, e ha anche la sua giustificazione concreta, bisogna pur scaldarsi in montagna, e un cicchetto non ha mai fatto male a nessuno. E poi il cappello acuto di punta e di piuma. Quei bei canti solenni in coro, come non siamo più capaci di fare. E i muli. Ci piace che i vostri migliori amici siano i muli, animali ormai mitologici per chi ha meno di settanta-ottanta anni, eppure amati da tutti per la loro forza mite e testarda. Portano con fierezza di razza purissima la loro modesta condizione di incrocio, e voi verrete sempre raffigurati a portar su cannoni a spalla e a dorso accanto ai vostri muli (che noi non abbiamo mai visto davvero), anche fra mille anni. Anche se muli non ne avete più, anche se proprio ieri ho letto che nella prossima adunata si saluterà l'ultimo mulo soldato, fascinosamente chiamato Iroso. «Il mulo sembra scontroso perché è timido e ha una grande paura del buio», racconta il compagno umano di Iroso, aumentando a dismisura la nostra simpatia: «Non riesci a infilarlo in una galleria, se non è illuminata. Può avere paura anche di una lucertola». Per questo venivano seguiti sempre dallo stesso alpino, creando un legame «come con un cagnolino di seicento chili». Allora dedichiamo a Iroso e ai suoi amici bipedi anche queste righe di Giulio Bedeschi, in Centomila gavette di ghiaccio, sulla vostra eroica campagna di Russia: «Una volta un conducente rimase ferito da una scheggia che gli fratturò la gamba ed io che ero ufficiale medico tentai di prestargli qualche cura, quando ad un certo punto il suo mulo gli si avvicinò e infilò il muso tra la terra e la nuca del ferito, in modo da sostenerlo, riscaldarlo, confortarlo. Una scena che non dimenticherò mai».
Soldati montanari, soldati contadini, come mio nonno Pelino durante la Grande guerra, siete amati perché avete sempre lottato con la tenacia e la forza di un mulo e ci ricordate l'attaccamento al gruppo, alla terra e alla nostra terra - di un popolo che quell'attaccamento ha perduto.@GBGuerri
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