‘Roma violenta’. Quel che era il titolo di un film poliziottesco di metà anni ’70, oggi rappresenta la dura e cruda realtà che ci pone davanti a una serie di notizie di cronaca nera cui siamo quasi assuefatti. Bastano quattro anni perché un delitto efferato, come quello del 33enne Carlo Macro, finisca nel dimenticatoio e torni d’attualità solo per il disperato grido d’aiuto lanciato dalla madre, Giuliana Bramonti, che non riesce più a pagare le spese legali del processo.
L'omicidio di Carlo Macro
Suo figlio era stato ucciso alle due di notte del 17 febbraio 2014 da Joseph White Klifford un cittadino indiano di 57 anni che viveva, nel quartiere Trastevere, in via Garibaldi dentro una roulotte donata dalla Comunità di Sant'Egidio nell'ambito del progetto di accoglienza degli stranieri. Carlo, che si trovava in compagnia del fratello, aveva fermato la sua auto vicino a quella roulotte lasciando l’autoradio a volume alto, non sapendo che lì vi abitasse qualcuno. Una pausa, che sarebbe dovuta durare giusto il tempo di espletare un bisogno fisiologico, ma che gli è costata la vita. L’indiano, che oltretutto era un immigrato irregolare, visibilmente inferocito, prese un cacciavite di 20 centimetri e lo conficcò nel petto del 33enne romano. A nulla valsero i soccorsi effettuati all’ospedale Fatebenefratelli.
Joseph Klifford, il clochard assassino
Joseph White Klifford era noto nel quartiere per essere un assiduo frequentatore della mensa della Comunità di Sant’Egidio la quale, dopo un anno dall’omicidio di Carlo, era stata scagionata da ogni accusa. Nel 2014, infatti, gli esponenti locali di Fratelli d’Italia, Fabrizio Santori e Marco Giudici avevano presentato un esposto per denunciare le carenze relative alla cattiva gestione delle ‘case roulotte’ ma la procura di Roma, nell’aprile 2015, aveva archiviato le indagini.
Il 17 luglio 2015 Klifford, che aveva alle spalle precedenti per reati contro la persona e un decreto di espulsione del giugno 2012, viene condannato a soli 14 anni di reclusione anziché 21 perché la Corte aveva escluso l’aggravante dei futili motivi. La madre della vittima, Giuliana Bramonti, in qualità di presidente dell’Associazione “Carlo Macro”, a un mese esatto dalla sentenza, rivolge un appello al procuratore Pignatone per chiedere di non archiviare l’inchiesta sulle roulotte della Sant’Egidio. Quell’indagine, secondo la Bramonti, “ha fatto emergere un fenomeno inquietante di degrado, di illegalità e di ingiustizie. Un fenomeno che ha incrociato tragicamente il destino di mio figlio". Un’inchiesta durata un anno che ha fatto parzialmente luce “su un fenomeno caratterizzato dal silenzio connivente delle istituzioni, da interessi trasversali, da illegittime interazioni tra privati e pubblica amministrazione, con la Comunità di S.Egidio che ancora oggi incentiva forme improprie di assistenza disseminando degrado su tutta la città”.
La raccolta fondi per pagare le spese legali
Nel marzo 2016 la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado e, il 17 febbraio 2018, Giuliana Bramonti, ha avviato una racconta fondi sulla piattaforma web Gofundme per riuscire a pagare gli avvocati. Servono 15 mila euro e, a oggi, sono stati raccolti circa 9mila euro. La madre del povero Carlo, sentita da Romatoday, ha detto: “Abbiamo ancora tanti debiti per le spese legali, più tutte le spese che abbiamo già dovuto sostenere di tasca nostra” e “Non abbiamo ricevuto nessun risarcimento dal Comune, tranne un piccolo contributo da parte della precedente giunta".
La rabbia della madre
La Bramonti, in un recente intervento, in occasione della fiaccolata per Pamela Mastropietro, in cui sono state ricordate anche molte altre ‘vittime dimenticate’ come Carlo Macro, ha attaccato duramente le istituzioni. “Mentre gli assassini vengono assistiti, i familiari delle vittime vengono completamente abbandonate al loro destino. Devono sostenere le spese dei processi costosissime – ha ribadito - e lo Stato se ne infischia completamente. Anche le vittime possono aver bisogno dello psicologo, cosa che agli assassini danno gratis. Noi chiediamo che lo Stato si faccia carico anche del nostro sostegno psicologico”.
La donna non ha risparmiato critiche nemmeno verso la magistratura: “Quell’indiano non doveva stare in Italia - ha detto - ma vi è rimasto per delinquere. Gli sono stati dati 14 anni di reclusione come se non fosse morto nessuno e, di fatto, diventeranno 6-7 anni e ce lo ritroveremo in strada a delinquere. Questa non è giustizia, è una presa in giro”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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