La pace e i generali

Nel 2015 ero in Parlamento e partecipai all'elezione del Presidente della Repubblica. In quell'occasione io suggerii pubblicamente la candidatura di Romano Prodi nel nome della pacificazione del Paese, pur non condividendone nessuna posizione politica.

La pace e i generali

Diceva Don Abbondio: «Il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare». Ebbene lo spirito democratico è la stessa cosa e a volte per dimostrarlo ci vuole anche coraggio. Nel 2015 ero in Parlamento e partecipai all'elezione del Presidente della Repubblica. Ebbene, in quell'occasione io suggerii pubblicamente (meno male che esistono le collezioni dei giornali) la candidatura di Romano Prodi nel nome della pacificazione del Paese, pur non condividendone nessuna posizione politica. In un ruolo istituzionale come il Quirinale, in cui per usare le parole di Mattarella, un Presidente deve spogliarsi di ogni appartenenza, sono altre le valutazioni da fare.

Il ragionamento che era alla base di quella proposta è lo stesso per cui sono convinto che oggi la candidatura di Silvio Berlusconi sia quella che ha più pregnanza politica: in un'Italia che da trent'anni ha due schieramenti contrapposti la pace la possono siglare solo i generali. Non possono garantirla né i colonnelli, né personaggi che si sono inventati il mestiere di paciere senza mai firmare nessuna pace.

È la realtà: solo i duellanti hanno il diritto e il potere di porre fine al duello. Solo Prodi avrebbe potuto dire a suo tempo se fosse arrivato al Quirinale: «Marcolino (Travaglio n.d.r.) hai fatto il tuo tempo». Quello che potrebbe fare oggi, se eletto, Berlusconi nel suo campo. Gli altri non hanno l'autorevolezza dei generali sulle truppe. Mattarella è stato un buon Presidente. Ha concluso il suo mandato stimato da tutti. Ma nell'«annus horribilis» della magistratura è rimasto in silenzio sull'argomento.

Ecco perché affermazioni del tipo «il presidente non può essere un leader di partito», o l'immagine del candidato «non divisivo» lasciano il tempo che trovano. Sono solo artifici retorici di chi pone sul Cav un veto ideologico. Lo stesso che porrebbe un domani su Salvini o sulla Meloni. E, diciamocelo francamente, un veto ingeneroso. Berlusconi è stato l'inventore del bipolarismo, ma anche il leader che, nel momento in cui il bipolarismo è andato in crisi, cioè non ha più prodotto maggioranze solide, ha garantito la governabilità. Dovrebbe ben saperlo il segretario del Pd Enrico Letta che è entrato a Palazzo Chigi solo grazie all'appoggio del Cav. Come pure Draghi. Un ruolo di «stabilizzatore» che poteva svolgere solo un leader vero, che si è assunto quella funzione al costo di pagarla in consensi.

Motivo per cui il Pd può anche non votare il Cav, ci mancherebbe altro, ma non può fare della candidatura di un personaggio con cui ha governato e governa, una questione di vita o di morte. Viene da ridere. La verità è che in un Paese in cui la politica è stata emarginata nell'anti-camera del Potere.

In cui c'è addirittura chi accetterebbe «un tecnico» sia al Quirinale, sia a Palazzo Chigi. In cui molti degli abitanti del Palazzo potrebbero far proprio il motto di Don Abbondio sul coraggio. Ebbene, in un'Italia del genere c'è fame di leader nelle istituzioni. Siano o meno «divisivi».

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