Aldo Moro e quella 'seduta spiritica' "Il Paese per anni senza verità"

Il 16 marzo 1978, Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse che lo segregarono per 55 giorni e infine lo uccisero: un excursus sulla storia, oggi ancora una volta al centro di un libro, "La seduta spiritica" di Antonio Iovane

Aldo Moro e quella 'seduta spiritica' "Il Paese per anni senza verità"

Fin dal 1978, parlare del rapimento e della morte di Aldo Moro ha spesso aperto dibattiti e interrogativi, chiusi solo nel 2017 con la fine della Commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda. L’assassinio di un ex presidente del Consiglio non aveva precedenti nel Belpaese, così come non si sono più verificati casi analoghi: ci sono stati attentati terroristici, massacri e omicidi mirati, ma mai contro qualcuno che aveva rivestito una delle più alte cariche dello Stato. “Il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro - spiega a IlGiornale.it Gero Grassi, membro della stessa Commissione e autore di pubblicazioni sul tema - hanno rappresentato l’interruzione di un processo democratico, hanno rappresentato l’evoluzione dell’Italia, hanno rappresentato lo stop alla creazione dell’Europa dei popoli”.

L’attentato di via Fani

Era il 16 marzo 1978. Come ogni giorno, Moro con la sua scorta iniziava la propria mattinata tra doveri e abitudini. Era però un giorno speciale: sarebbe stata votata la fiducia al governo Andreotti. Casualmente speciale in realtà, perché le Brigate Rosse non avevano programmato con precisione il giorno del rapimento nel giorno della fiducia: il 16 marzo fu scelto in base a una serie di congiunture favorevoli per i terroristi, quali l’essere riusciti a togliere dal paradigma dell’attentato un venditore ambulante che ogni giorno era all’incrocio tra via Fani e via Stresa e che altrimenti sarebbe stato uno scomodo testimone in via Fani. Quel giorno all’ambulante furono tagliate le ruote e in pochi minuti, poco dopo le 9, le Brigate Rosse riuscirono a compiere un massacro.

Attentato di via Fani

Moro si trovava in auto con la scorta (composta dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, il vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino), quando la strada fu tagliata loro da membri delle Brigate Rosse su una Fiat 128 con targa del Corpo diplomatico rubata in precedenza. Oltre alla presenza di vari membri dell’organizzazione terroristica in varie postazioni di via Fani e dintorni, quattro brigatisti travestiti da avieri di Alitalia (Valerio Morucci, Raffaele Fiori, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli) iniziarono a sparare sulla scorta, uccidendone tutti i membri. Moro fu accompagnato con la forza su un’altra auto dai brigatisti, che lo condussero, molto probabilmente traumatizzato, nel luogo della sua prigionia.

Una delle domande che maggiormente è ricorsa in questi decenni è: come mai la scorta non è riuscita a rispondere efficacemente all’attacco dei terroristi? “Secondo gli studi e le rilevazioni della Commissione Moro approvati dal Parlamento - racconta l’onorevole Grassi - per l’azione fulminea di chi ha sparato: la velocità dell’azione ha impedito che la scorta potesse rispondere. Infatti l’unico che ha risposto, dopo un po’ di tempo, è il poliziotto Iozzino, quello che poi esce dalla macchina e riesce a sparare. Questo è stato accertato. Non è escluso però che la scorta, soprattutto il maresciallo Leonardi e l’appuntato Ricci, conoscesse quelli che hanno sparato. Perché è strano che si siano avvicinati all’auto senza che la scorta stessa abbia avuto un minimo di reazione. C’è il dubbio che qualcuno di quelli che hanno sparato fosse soggetto conosciuto dalla scorta”.

La prigionia: i comunicati e le lettere di Moro

Il primo comunicato delle Br, con cui i terroristi rivendicarono massacro e sequestro, giunse un paio di giorni dopo l’attentato di via Fani. Durante i 55 giorni della prigionia di Moro, furono diffusi 9 comunicati da parte delle Br: l’ultimo risale al 6 maggio 1979 ed è quello in cui si lanciava l’ultimatum per ottenere la liberazione dei brigatisti in carcere e quindi un riconoscimento politico dell’organizzazione.

Moro scrisse moltissimo nella sua “prigione”: un memoriale e ben 86 lettere indirizzate alla sua famiglia, ai colleghi della Democrazia Cristiana, al Papa Paolo VI. All’epoca più di un politico e di un intellettuale sollevarono dubbi in relazione all’autenticità delle missive. Secondo le perplessità di cui si parlò all’epoca, Moro sarebbe stato influenzato in qualche modo a scrivere quelle lettere. “Qualcuno all’epoca - illustra Grassi - tentò di imputare che le lettere di Moro fossero state condizionate e addirittura scritte dai brigatisti. A tal proposito si fece anche un’autopsia particolare a Moro, perché si sosteneva che fosse stato drogato. L’autopsia ha confermato che Moro non aveva mai assunto un milligrammo di sostanze stupefacenti e la storia di Moro e il pensiero di Moro sono tutti nelle lettere. Per cui quelle lettere sono attribuibili solo ad Aldo Moro”.

Aldo Moro sotto sequestro delle Brigate Rosse

La seduta spiritica di Zappolino

Uno dei fatti più insoliti in relazione alle ricerche del covo delle Br in cui Moro era segregato riguarda una seduta spiritica. Durante una domenica nella villa di Zappolino di Alberto Clò, poco fuori Bologna, un gruppo di professori universitari con le loro famiglie (tra cui Romano Prodi) per diletto durante una giornata piovosa organizzò il “gioco del piattino”, cioè una seduta spiritica improvvisata per ammazzare il tempo. Mentre intorno a loro giocavano i bambini e loro stessi bevevano Coca Cola, questi docenti evocarono don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, due colonne portanti della Democrazia Cristiana.

La seduta ebbe un riscontro insolito: oltre a tante parole e numeri senza alcun senso, emersero tre indicazioni geografiche, “Gradoli, Viterbo, Bolsena”. Quando due giorni dopo Prodi decise di informare gli inquirenti, le ricerche di questi si indirizzarono, come da suggerimento dei prof, a Gradoli, in provincia di Viterbo. Si tralasciò di controllare invece via Gradoli, a Roma, sulla strada che porta a Viterbo - strada che tra l’altro era stata già perquisita a seguito di strani rumori, segnali Morse in realtà, lamentati dai coinquilini. Le forze dell’ordine sarebbero tornate successivamente in via Gradoli, a causa di una perdita idrica, scoprendo in effetti uno dei covi di un brigatista coinvolto nel sequestro Moro. Sulla seduta spiritica sono state fatte nel tempo numerose congetture e Prodi fu anche attaccato a causa di essa: Zappolino fu talvolta citata dai suoi avversari politici, per esempio se ne accennò durante la Commissione parlamentare sul dossier Mitrohkin.

Per comprendere parte di questa storia, una lettura interessante può essere “La seduta spiritica” di Antonio Iovane, che esce l’11 marzo per i tipi di Minimum Fax. “Mescolando finzione e reportage, interviste, memorie e autobiografia - si legge nella sinossi del lavoro di Iovane - [l’autore] ha trasformato in azione tutto quello che è stato raccontato dai protagonisti della seduta spiritica. È una ricostruzione indiziaria, un racconto inchiesta che mette in rilievo gli equivoci e le circostanze ambigue di questa storia. L’Italia è un paese senza verità, se manca la verità si può solo cercare di formulare gli enigmi irrisolti nella maniera più corretta. Ma, come diceva Sciascia che apre e chiude questa indagine, i fatti della vita, una volta scritti, diventano più complessi e oscuri”.

La seduta spiritica di Antonio Iovane

La seduta spiritica di Zappolino è in fondo una delle storie meno scandagliate del caso Moro, un po’ perché i suoi protagonisti hanno sostenuto la stessa inattaccabile narrazione per molto tempo, ma anche perché venne inquadrata all’interno di ricerche spasmodiche in cui non si tralasciò nulla, tanto che venne chiamato in causa anche il parapsicologo Gerard Croiset per l’eventuale collocazione di Moro nei 55 giorni del suo rapimento. Tuttavia nel libro viene esposta una teoria molto interessante contenuta nell'estratto che pubblichiamo per gentile concessione di Minimum Fax.

La linea della fermezza e il tragico epilogo

La fine della storia la conoscono tutti: dopo 55 giorni di prigionia, Moro fu trucidato. Il suo corpo venne fatto trovare dal brigatista Valerio Morucci, che telefonò al professor Francesco Tritto, assistente di Moro, per dirgli di recarsi in via Caetani, simbolicamente a metà strada tra la sede della Dc in piazza Del Gesù e quella del Pci in via delle Botteghe Oscure. Il cadavere era in una Renault 4 Rossa e quelle immagini fecero il giro del mondo.

Ma come si giunse all’omicidio? In generale, parte dei membri delle Br erano orientati da subito verso il sacrificio dello statista, anche se una minoranza osteggiava questo disegno - tanto che c’è chi ha pensato che le rivelazioni di Zappolino siano giunte proprio da qualche brigatista, che avrebbe voluto la liberazione di Moro, e che avrebbe comunicato il tutto a qualche fido accolito tra le file degli studenti o dei docenti universitari in qualche grado di separazione vicini ai protagonisti della seduta (c'è anche chi pensa che siano stati proprio i gradi di separazione a distorcere il messaggio corretto). Lo Stato italiano perseguì la linea della fermezza: acconsentire alle richieste dei terroristi rossi avrebbe comportato il loro riconoscimento politico. La linea della fermezza non caratterizzò solo la Dc: il Pci cercò di infiltrare dei propri militanti nelle Br, attraverso l’accordo con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e denunciò di fatto vari brigatisti alle forze dell’ordine, come si legge sul saggio “La guerra civile”.

Vari soggetti e collettività nel tempo vennero coinvolte, nei fatti o nella narrazione, sia quella poi verificata dalla Commissione, sia quella smentita: dai servizi segreti alla ‘ndrangheta, fino al Psi. La certezza da sempre fu comunque una: le Brigate Rosse uccisero Moro per propria mano. “Alla luce delle indagini compiute - si legge nella relazione della Commissione Moro del 2017 - il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale. Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse”.

Quello della Commissione Moro del 2017 è stato un lavoro titanico, che è partito con le audizioni di diversi soggetti, come gli ex appartenenti alle Brigate Rosse, i magistrati e gli ex appartenenti alle forze di Polizia, gli esponenti politici, i periti, gli appartenenti a Servizi di Sicurezza e Reparti speciali.

Le teorie sul sequestro e l’omicidio di Moro

Nel 1973, mentre era in Bulgaria, l’automobile su cui viaggiava Enrico Berlinguer fu investita da un camion militare. C’è chi pensa si sia trattato di un incidente, ma c’è anche chi crede sia stato un attentato fallito. “Non fu un incidente - ha detto l’ex senatore Giovanni Pellegrino, che fu presidente della Commissione stragi, nel libro-intervista con Giovanni Fasanella “La guerra civile” - Con ogni probabilità fu un attentato organizzato dei servizi segreti bulgari su mandato dei servizi sovietico e cecoslovacco”. Berlinguer e Moro furono gli ideatori del cosiddetto compromesso storico, che avrebbe unito le sorti politiche di Dc e Pci. E Berlinguer telefonò a Moro subito dopo l’attentato di piazza Fontana: secondo Pellegrino, entrambi sentivano di essere obiettivi sensibili, ma non necessariamente di un complotto internazionale, anche perché “Moro era un obiettivo naturale per le Brigate Rosse”.

Tuttavia diversi gruppi extraparlamentari restarono alla finestra, attendendo un possibile disfacimento della Dc, a seguito del rapimento Moro: tra questi gli ambienti laici e di sinistra “ostili al compromesso storico”, scrive Fasanella, ma anche “ambienti intellettuali di matrice azionista”. “La destra - ha spiegato ancora Pellegrino nel volume - voleva troncare il dialogo tra Dc e Pci. I circoli democratici lavoravano invece per un'evoluzione del sistema politico”.

Sono moltissime le pubblicazioni sul caso Moro: una visione su parte delle teorie che scaturirono nel tempo è “Il puzzle Moro”, che è del 2018 a firma dello stesso Fasanella: il giornalista ha inquadrato, anche alla luce dei documenti internazionali desecretati il caso Moro andando alle radici, a ciò che l’Italia della fine della Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato in un’ottica europea e oltreoceano. Nel volume viene riportata una citazione dello storico Miguel Gotor (che si occupò della curatela dell’edizione delle epistole di Moro), che ha fatto parte della Commissione del 2017. “La cornice in cui leggere il caso Moro - ha detto - è senza dubbio quella di un paese che ha perso la Seconda Guerra Mondiale, ma ha vinto il dopoguerra, facendosi troppi nemici”.

L’eredità di Moro

Aldo Moro

Ciò che Moro ha fatto da politico è giunto fino a noi. “Le cose che Aldo Moro ha ideato - chiosa Grassi - la scuola media obbligatoria, l’educazione civica nelle scuole, l’istituzione della Regione Molise, il trattato di Osimo che ha chiuso la vicenda di Trieste - sono state tutte realizzate e sono state positive per il Paese. Per quanto riguarda l’eredità del pensiero, era un pensiero scomodo e la classe politica successiva a Moro non ha voluto e non era forse nemmeno in grado di realizzare il suo pensiero sulla democrazia compiuta e sull’Europa, che poi sono i due motivi principali per i quali è stato ucciso. Nella sua eredità ci sono i valori basilari della Costituzione e l'idea centrale che la persona deve sempre essere al centro di tutto”.

Moro è stato ucciso prima nella finzione e poi nella realtà. Una sua immagine metaforica viene infatti colpita a morte nel finale di “Todo Modo” di Leonardo Sciascia, da cui Elio Petri ha tratto un film interessante e attualissimo - d’altra parte è ambientato durante un’epidemia. Sul sequestro Moro e sulla figura dello statista sono stati girati vari film: in alcuni di essi questa vicenda è centrale, nei più recenti questa figura è al tempo stesso evanescente e cristallizzata non nell’azione politica, ma nella fine della sua esistenza. Il primo film in questo senso fu “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara, abbastanza pedissequo su ciò che si conosceva ai tempi della realizzazione dell’opera nel 1986. Fu seguito da altri lavori più o meno fantasiosi in modi differenti come “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio, “Piazza delle Cinque Lune”di Renzo Martinelli e “L’anno del terrore” di John Frankenheimer. Ma più sullo sfondo c’è il personaggio di Moro o si fa riferimento al suo omicidio anche in “Romanzo di una strage”, “Il Divo” e “Romanzo criminale”.

Ci si chiede però se il rischio di questo tipo di narrazione sia appiattire Moro all’interno della vicenda del suo sequestro e del suo omicidio, soprattutto tra le giovani generazioni. “Oggettivamente il rischio c’è - conclude Grassi - Ma se uno abbocca a questo rischio significa che è uno stupido.

Moro non viene ucciso perché passa da via Fani, ma viene ucciso per quello che è, per quello che dice e per quello che ha fatto. L’omicidio è la conseguenza di tutto quello che Moro dice, è e fa. È chiaro che se uno si ferma all’omicidio non capisce Moro”.

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