Si sono autoproclamati il «governo del cambiamento», eppure ripetono schemi vecchi di almeno un ventennio. Già, perché il curioso cortocircuito di un esecutivo che si ritrova a protestare nelle piazze contro decisioni che lui stesso può e dovrebbe prendere riunendosi comodamente in quel di Palazzo Chigi non è affatto una novità.
I precedenti sono tanti e davvero di pregio. Tutti risalgono al decennio tra il 1997 e il 2007, quando la sinistra massimalista si divertiva a scendere in piazza contro quegli stessi governi che in Parlamento sosteneva. Ne sa qualcosa Romano Prodi, che nelle due volte in cui è stato premier ha dovuto regolarmente fare i conti con la sinistra «di lotta e di governo». Nel 1997, fu l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema ad aprire le danze guidando i cortei a sostegno dello sciopero generale contro il primo esecutivo del Professore. Mentre nel 2006 e 2007 toccò a Franco Giordano, Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto marciare nelle piazze contro se stessi, cavalcando con disinvoltura il disagio delle masse. Insomma, la mattina in piazza ad arringare il popolo contro lo Stato padrone, il pomeriggio seduti uno a fianco all'altro intorno al tavolo del Consiglio dei ministri a decidere le sorti del Paese.
Lo schema messo in scena ieri a Torino da Matteo Salvini è sostanzialmente questo. Con un dettaglio che, per molti versi, lo rende ancora più audace. Negli anni dei governi guidati dal Prodi, infatti, la sinistra radicale aveva un ruolo decisamente minoritario rispetto all'Ulivo prima o all'Unione poi. E anche all'interno degli stessi partiti esistevano dinamiche di confronto ben più complesse di quelle attuali. Oggi, invece, la Lega ha politicamente la golden share dell'esecutivo nonostante un risultato nelle urne decisamente più basso del M5s. E, soprattutto, Salvini ha un ruolo centrale negli equilibri del governo non certo paragonabile a quello di un Ferrero o di un Diliberto qualsiasi. Senza contare che la Lega, oggi come ieri, è un partito estremamente verticistico e nel quale non c'è una voce una, in dissenso dalla linea del leader. Insomma, che oggi il Carroccio scenda in piazza a manifestare a favore di quella Tav che proprio il governo a trazione Salvini non vuole realizzare è un paradosso che per certi versi rasenta la farsa. E, allo stesso modo, sono piuttosto ridicoli i ripetuti appelli che arrivano da Forza Italia, con autorevoli big azzurri che chiedono al ministro dell'Interno di «non arrendersi al diktat grillino» e «far ragionare il M5s sulla Tav».
È del tutto evidente, infatti, che il problema è convincere Salvini, non certo i Cinque stelle. Non a caso, il ministro dell'Interno è molto impegnato a tenere insieme le diverse esigenze dell'esecutivo, limitandosi a minacciare strappi e rotture che al momento non sembrano essere in agenda. È la «tattica della baraonda», che prevede di litigare su tutto ma non rompere su niente. E infatti sullo spinoso nodo della Tav la proposta di Salvini è quella del referendum, un modo per buttare la palla in tribuna e rinviare la questione a dopo le Europee del 26 maggio. D'altra parte, continuando a evocare la crisi un giorno dopo l'altro, alla fine si otterrà solo l'effetto contrario di puntellare il governo. Ecco perché Salvini ha dato il placet a partecipare alla piazza di Torino, ma solo a patto di «non alzare i toni». Che, detto da un ministro dell'Interno sempre molto tranchant nelle sue posizioni, un po' fa sorridere.
Come pure un certo effetto straniante lo fa vedere i militanti della nuova Lega sovranista e nazionalista stretti lì in piazza Castello a fianco agli elettori del Pd e di Forza Italia, tutti in mezzo a centinaia di bandiere dell'Unione europea.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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