Una storia esemplare. C'è un ex primo ministro di un governo socialista, Manuel Valls, che cerca di farsi candidare alle prossime legislative nel movimento, En Marche!, che quel governo ha mandato a casa. Volgarmente si chiama «salire sul carro del vincitore». Se riesce, si viene accusati di essere voltagabbana e/o senza onore per un tempo più o meno lungo: ha a che fare con la memoria, la simpatia e l'antipatia, le doti e l'integrità politica di chi, pur avendo cambiato casacca, riesce a dimostrare che non conta l'uniforme indossata, ma ciò che le sta sotto. Se non riesce, perché dal carro gli chiudono la porta in faccia, si è di fronte a un cretino politico. Valls è entrambe le cose, un uomo privo di onore e un cretino politico.
C'è infatti di più. Da primo ministro in scadenza, Valls si era candidato alle primarie del suo partito, quello socialista: le avesse vinte, sarebbe stato lui il candidato alle presidenziali. Le ha perse, e questo paradossalmente avrebbe potuto togliergli dalle spalle il peso di aver guidato quel partito alla catastrofe, peso ricaduto su Benoit Hamon, il candidato prescelto, e quindi lavorare per riprendersi il partito dall'interno. Sconfitto, Valls ha però tenuto a far sapere che non avrebbe appoggiato Hamon nemmeno al primo turno, come se a incarnare il socialismo ci potesse essere solo il suo nome, e che invece avrebbe votato da subito Emmanuele Macron, lo stesso che ora gli ha sbattuto la porta in faccia. Il cretinismo politico si duplica così nel tradimento e comprende più cose: spocchia, nessuna sensibilità, delirio di superiorità, mancanza di ideali, ma anche di lucidità.
L'unica scusante che gli si può trovare è che Valls non è, non è mai stato, un socialista, ma è stato e rimane un uomo di sinistra. Le due cose non coincidono ed è per non averlo capito che, a più di un secolo dalla sua fondazione, stiamo assistendo alla scomparsa di un partito glorioso nella storia di Francia.
Valls, insomma, chiude un ciclo, quello della lunga e costante espropriazione del socialismo, dell'idea socialista proudhoniana, di una società libera, ugualitaria e solidale, «una società decente», per usare le parole di un socialista doc inglese, George Orwell, e della sua sostituzione con una sinistra borghese e elitaria dei diritti individuali, dal matrimonio per tutti alla legalizzazione della cannabis, e di un'Europa sostanzialmente commerciale, senza preoccuparsi di ciò che avrebbe potuto comportare per i più deboli, la loro precarizzazione, la loro disumanizzazione.
È una sorta di metafisica del progresso quella che, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra, ha preso il posto di ciò che nel socialismo era una critica al mondo liberale e liberista, la sua atomizzazione, dove non c'è alcuno spazio per qualsiasi vincolo comunitario. È una scelta che un critico, socialista e non di sinistra, quale Jean Claude Michéa ha definito «la celebrazione da parte della sinistra moderna delle virtù del mercato globale senza frontiere e di ogni forma di affrancamento da appartenenze e identità date (comprese quelle sessuali)».
Così, dietro il sussulto di orgoglio socialista di un François Mitterrand ultimo «monarca repubblicano», c'è ormai la consapevolezza della generazione di burocrati che ne prenderà il posto, funzionari di partito senza più identità, che si arroccano su spartiacque ideologici, destra e sinistra, perché strumentali nella conta dei voti, ma manifestano fastidio verso quella Francia profonda, reale e sociale, che ai loro occhi ha il torto di non apparire moderna, di non essere moderna. Il lento travaso dei voti si è rivelato alla fine inarrestabile: il socialismo se n'è andato in cerca di altri lidi e quello che è rimasto al suo posto è la sinistra.
A volte gli avversari di una forza politica vedono più in profondità dei diretti interessati al suo mantenimento. In un bel libro di memorie, "La République n'a pas besoin de savants", Michel Marmin, fra i più brillanti critici cinematografici della sua generazione e uno dei cervelli pensanti della Nouvelle Droite, racconta di come il padre, socialista, già all'inizio degli anni '50 deplorasse «la mancanza di spirito proletario. Siamo ormai il partito di quei borghesi intellettuali che hanno cambiato l'aspetto del socialismo. Abbiamo lasciato la classe operaia in mano ai comunisti, affossatori della libertà». Era il suo «un socialismo essenzialmente morale, fondato sulla religione del lavoro e del sapere, il disprezzo del denaro, il rispetto altrui e l'amore per la comunità nazionale, il solo bene inalienabile del popolo, il solo bastione contro la lebbra capitalista e l'impostura comunista».
Un socialismo «eroico», insomma, e non è un caso che Charles Peguy sia un nome caro al cuore e alla memoria dei francesi, indipendentemente dalle scelte politiche, agli antipodi di quella sinistra edonista e individualista che nel quinquennio di Hollande ha piantato su quell'idea gli ultimi chiodi della bara.
Si dirà che la fine del Novecento significava anche la fine dei partiti che lo avevano accompagnato, e naturalmente è vero. Ma è proprio l'essersi attardato in battaglie di contrapposizioni fittizie, il sorriso sarcastico con cui di diceva che solo «governi di sinistra» potessero fare «politiche di destra», che alla fine ha svuotato il Partito socialista francese di ogni contenuto e, soprattutto, lo ha allontanato dal cuore della gente.
Nella parabola politica di Valls c'è molto più di una catastrofe personale. C'è la presa d'atto che il linguaggio della politica ormai non è più al passo con i tempi, ma barattare il popolo con il potere non porta fortuna.
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