Può un personaggio che si professa liberale, riformista far parte del campo largo che ha disegnato Enrico Letta? No. Per cui, come nel gioco dell'oca, dopo aver flirtato con il segretario Pd, posato per le «foto op» con i dirigenti piddini, lanciato strali contro il centrodestra come prevede la sceneggiatura del fronte democratico, Carlo Calenda ha avuto un momento di resipiscenza e ha disertato la crociata di sinistra. Come nel gioco dell'oca è tornato alla casella di partenza. Ha mostrato di non avere le idee ben chiare, di essere confuso, magari stressato, ma alla fine anche lui si è reso conto che quello schieramento con dentro l'inimmaginabile sia indigeribile per chiunque si descriva moderato, abbia come riferimento la filosofia di Draghi e stia attento al tema della modernizzazione del Paese. Per cui, alla fine, in extremis, Calenda si è mostrato coerente con quello che ha predicato nell'ultimo anno al costo di prendersi sulle spalle un bel rischio. La verità è che ha capito di non avere scelta, malgrado questa presa di coscienza richiedesse un «dietrofront» per alcuni aspetti coraggioso, per altri poco decoroso.
Nessuno, neanche il Cappellaio Matto della politica italiana può permettersi delle scelte contro-natura con la propria storia, il proprio sentimento e il proprio elettorato di riferimento: diciamoci la verità nell'alleanza con Fratoianni e Di Maio, Calenda si sarebbe portato dietro al massimo i suoi cari. Ecco perché un minimo di riflessione non dovrebbe farla lui, quanto il segretario del Pd. Letta, infatti, in queste elezioni ha scelto la via più semplice, ispirata al secolo scorso, quello del fronte unico contro i nemici della democrazia. Un assurdo se si tiene conto che con Silvio Berlusconi e Matteo Salvini ha governato fino ad un mese fa. Di più, nel tentativo di abbozzare una politica che è un ritorno al passato ha mortificato il profilo riformista del suo partito per mettere insieme una macedonia di personaggi, partiti, programmi, valori che è diventata rancida nel giro di una settimana. È la tesi alla base della sua proposta politica che fa acqua: come si fa a teorizzare all'alba del terzo millennio, dopo un anno di governo Draghi, il Pnrr da realizzare, mentre infuria una guerra a mille chilometri di distanza e si convive con le emergenze, uno schieramento che si basa sull'unione tra un'alleanza programmatica e una tecnica, quindi, con un pezzo di coalizione con cui non ci si propone di governare, ma solo di conquistare seggi in Parlamento? Siamo agli antipodi degli appelli alla serietà con cui il segretario del Pd si riempie la bocca quotidianamente. Letta - per paura, va detto - ha sacrificato sull'altare del tatticismo la strategia.
Ecco perché le scelte prima di Matteo Renzi e poi del leader di Azione sono, soprattutto, un j'accuse, una presa di distanza, una dura critica all'attuale politica del Pd.
Dalle loro parole, dalla fotografia che fanno di quelli che dovevano essere i loro alleati, si arguisce come il baricentro del Partito democratico si sia spostato a sinistra, abbia abbandonato quella bozza di impostazione riformista che lo animava per approdare di nuovo al populismo di sinistra. Ha abbandonato lo spirito dell'agenda Draghi per ritirare fuori dal cassetto quello del governo giallorosso, del Conte due senza Conte. Il che è un paradosso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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