Dire che l'ha scaricato sarebbe eccessivo e poco consono al personaggio, moderato e misurato sia politicamente che caratterialmente. Di certo, però, ormai da qualche settimana Paolo Gentiloni sta dando la sensazione di volersi lentamente emancipare da un Matteo Renzi che appare ogni giorno più solo. Uno smarcamento discreto quello del premier, tanto che ancora ieri durante una cerimonia a Palazzo Chigi non ha perso l'occasione per riconoscere al suo predecessore la bontà del lavoro fatto. Discreto ma evidente, plasticamente immortalato dal dibattito politico delle ultime 48 ore: da una parte Renzi costretto a parare i colpi dell'inchiesta che coinvolge suo padre Tiziano e il suo fidatissimo braccio destro Luca Lotti; dall'altra Gentiloni, concentrato sulla «fase due» del suo governo e pronto a promettere tagli alle tasse sul lavoro. Tutti e due in televisione. Il primo venerdì scorso su La7 a rispondere alle domande sull'inchiesta Consip proprio nel giorno in cui il padre veniva interrogato dai pm di Roma, il secondo ieri su Raiuno, intervistato da Pippo Baudo nel salotto super-pop di Domenica in per dire che abbasserà le tasse e resterà in carica fino alla fine della legislatura.
Due mondi che oggi sembrano lontani anni luce e completamente ribaltati rispetto a soli due anni e mezzo fa. Tanto è passato da quando Filippo Sensi - allora portavoce di Renzi a Palazzo Chigi - chiedeva al deputato semplice Gentiloni la cortesia di incontrare al suo posto alcuni giornalisti coreani. Il futuro premier non si sottrasse e chissà che non sia stato di buon auspicio visto che di lì a poco sarebbe stato «promosso» ministro degli Esteri. È soprattutto per questo che a Renzi il premier deve certamente molto, visto che fu proprio lui a «ripescarlo» dopo il flop del 2013, quando si candidò alle primarie del Pd per il sindaco di Roma e arrivò terzo dopo Ignazio Marino e David Sassoli con solo il 15% di voti. Anche per questo, forse, Gentiloni ha l'accortezza di ribadire sempre la stretta continuità tra il suo governo e quello precedente. Che c'è certamente nella forma e nelle prese di posizioni ufficiali, ma forse inizia a sfilacciarsi nella sostanza delle cose. A partire dall'eventualità del voto anticipato, una questione su cui l'ex segretario del Pd ha più volte puntato i piedi e che due giorni fa Gentiloni ha di fatto archiviato spiegando che andrà avanti fino al 2018.
Dal renzismo al gentilonismo, dunque. Perché la presa di distanza è nei fatti.
Discreta, nell'avvolgente stile democristiano, ma evidente. E probabilmente in scia con un'altra freddezza, decisamente più pesante: quella di un Quirinale che non pare intenzionato a farsi dettare i tempi della legislatura da Renzi, nonostante l'ex premier ci tenga sempre a far notare che è stato grazie a lui che Sergio Mattarella è arrivato al Colle.
A questo punto, però, la domanda da farsi è un'altra e riguarda un terzo democristiano che potrebbe avere un ruolo centrale nel destino di Renzi.
Se alla fine decidesse di «emanciparsi» anche Dario Franceschini, infatti, l'ex premier rischierebbe seriamente di perdere le primarie per la segreteria del Pd che si terranno il 30 aprile.Così fosse, Renzi e il renzismo finirebbero loro per essere «rottamati».
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