Quando Mussolini piaceva anche all'estero

Due anni prima di Ludwig, il Duce aveva incontrato lo storico tedesco-americano George Sylvester Viereck (poi sostenitore di Hitler), che ne fece un ritratto apologetico

Quando Mussolini piaceva anche all'estero

Due anni prima di Ludwig, il Duce aveva incontrato lo storico tedesco-americano George Sylvester Viereck (poi sostenitore di Hitler), che ne fece un ritratto apologetico. In Glimpses of the Great - frutto di incontri con grandi personaggi, da Sigmund Freud ad Albert Einstein - ne parla non come di «un dittatore dalla mente ottusa, ma come di uno statista costruttivo e lungimirante che lottava per liberare l'umanità dalle catene del capitalismo cosi come del lavoro». Osserva Luisa Passerini, in Mussolini immaginario, che l'atteggiamento del Duce nei confronti dell'interlocutore straniero «è di misurata e piena padronanza di sé, da uomo di Stato costruttivo e pacato, con momenti di grandezza e di distacco da se stesso».

Uguale solennità aveva manifestato in alcuni momenti dei colloqui con Ludwig, studioso di Goethe, che teneva sempre il grande tedesco a modello: «Nella visita all'Agro Pontino fa vedere a Mussolini la conclusione del Faust a proposito della bonifica; il dittatore ne è commosso e legge lentamente ad alta voce i versi tedeschi, ovviamente con perfetta pronuncia (in precedenza aveva citato Nietzsche in puro tedesco». (Ludwig verrà accusato nel dopoguerra da Gaetano Salvemini di prostituzione morale nei confronti del Duce). Nota la Passerini: «È interessante che la nuova immagine mussoliniana sia presentata come la più lontana possibile dalla spontaneità. È costruita e il personaggio stesso accredita la sensazione che essa sia il frutto di una serie di performance studiate: Ho sviluppato - ammette - tutto il mio contegno in questo decennio in grande stile».

Anche uno storico straniero certamente antifascista come Pierre Milza, sia nella corposa biografia di Mussolini sia nel Dizionario dei fascismi (scritto con Serge Berstein), dà conto della popolarità del Duce all'estero: «Gran parte dell'opinione pubblica internazionale era ormai acquisita all'idea dei meriti storici dell'Italia fascista: un paese che aveva spezzato l'offensiva rivoluzionaria in uno degli anelli deboli della democrazia europea, che aveva ristabilito la pace sociale, che aveva spianato la strada alla riconciliazione con la Chiesa cattolica». Ma più del fascismo, secondo Milza, «era la figura di Mussolini ad affascinare una parte delle élite europee». Riferendosi al ritratto «globalmente lusinghiero» di Ludwig («un ebreo pacifista costretto poi all'esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste»), lo studioso francese annota che non era il solo «a considerare Mussolini come una delle più forti personalità del secolo, e forse il più grande statista vivente».

Se lo scrittore tedesco riconobbe nel Duce una personalità del livello di Stalin (ma precisando che quest'ultimo non possedeva né l'immaginazione dell'italiano, né la sua malleabilità, né, soprattutto, le sue qualità magnetiche), un giornalista della «Tribune de Genève» nel 1932 lo paragonò a Lenin, mentre sul «Sunday Times» si poteva leggere che egli era «Mazzini e Garibaldi insieme: una combinazione senza precedenti». Dopo essere stato ricevuto con ogni riguardo a palazzo Venezia (fu dato perfino un concerto in suo onore a villa Torlonia), Gandhi parlò del loro incontro come di un «avvenimento storico», e il Duce ricambiò definendo il Mahatma «un genio e un santo».

Abbiamo accennato alla simpatia di Winston Churchill e di Franklin Delano Roosevelt per Mussolini. Ricordando il sottile lavoro diplomatico di Margherita Sarfatti per avvicinare il Duce ai democratici americani, Milza sottolinea che la vittoria di Roosevelt alle elezioni presidenziali fu salutata dal Duce come quella di una «terza via tra le ingiustizie del capitalismo e la brutalità del comunismo», e quindi come un omaggio reso alla sua stessa politica. Quanto al presidente americano, confidò una volta a Guido Jung, ministro delle Finanze italiano in visita a Washington, di considerare Mussolini il suo unico potenziale alleato nell'impegno per mantenere la pace mondiale e l'Italia come la sola vera amica dell'America in Europa.

Anche in Francia le simpatie per Mussolini erano forti. Lì viveva una cospicua comunità di antifascisti costretti all'esilio e la loro stessa presenza testimoniava quale fosse il prezzo di una dittatura. Apprezziamo i treni in orario, le grandi opere pubbliche e la sistemazione della Roma archeologica - dicevano i francesi - ma la perdita della libertà non ha prezzo. Eppure, due elementi giocavano in favore del Duce: la convinzione che il fascismo non fosse esportabile in Francia e che aver spazzato via il pericolo comunista dall'Europa valesse qualche sacrificio. Nel 1935 il viaggio in Italia del ministro degli Esteri francese Pierre Laval fu trionfale e si dovette attendere l'alleanza con Hitler per suscitare i primi, forti ripensamenti a Parigi.

A conferma che il quinquennio 1929-34 fu il periodo di massimo consenso e di massima solidità per Mussolini e il fascismo, De Felice cita I frutti del fascismo, un libro scritto durante la seconda guerra mondiale - e quindi non sospettabile di simpatie verso il regime fascista - da Herbert L. Matthews, corrispondente dall'Italia per il New York Times: «Il Duce ebbe realmente in quegli anni un enorme consenso popolare, tributo che veniva pagato più a lui personalmente che al regime... Gli italiani sono un popolo pratico e realistico, che doveva sostenere o avversare il fascismo in proporzione del suo successo o fallimento materiale... In quegli anni il fascismo nel complesso soddisfaceva le esigenze della maggior parte degli italiani, dai quali non ci si poteva aspettare che intendessero i caratteri distruttivi del sistema che stava per condurli alla rovina».

Nel 1931 Giorgio Amendola scriveva che «tutta la borghesia era stretta intorno al fascismo», cercando di limitare il consenso alla fascia alta della popolazione per incitare il proletariato alla rivolta e all'instaurazione in Italia della propria dittatura. Tuttavia, come abbiamo visto sia in questo libro sia in Perché l'Italia diventò fascista, dopo l'ascesa di Mussolini al potere non ci fu alcun movimento di massa che vi si oppose.

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