Quegli stranieri che si pentono di essere diventati italiani

Sono sempre più gli stranieri che si pentono di aver chiesto la cittadinanza: ci sono troppi doveri e guai che lo stato di "foreigner" non ha. Sembra paradossale in un momento in cui l'Italia è presa d'assalto da migliaia di disperati attratti da un miraggio

Quegli stranieri che si pentono di essere diventati italiani

The importance of not being italian. Scomodando Oscar Wilde, la parafrasi ci sta. E la traduzione suona più o meno così: ci sono stranieri, o meglio ex stranieri, pentiti di essere diventati italiani. Non conviene, per loro più doveri e guai che vantaggi rispetto all’essere foreigner, soprattutto per i novelli cittadini arrivati da paesi che oggi fanno parte della Ue. Paradossale. Le nostre frontiere vengono prese d’assalto da migliaia di disperati extracomunitari attratti da un miraggio, mentre molti dei pionieri dell’immigrazione approdati nel Belpaese- quando ancora poteva definirsi tale- oggi pensano a far fagotto. Per andarsene.

Ad Elena A., 50 anni, ne è bastato meno di uno vissuto da italiana a tutti gli effetti, per capire quanto fosse meglio stare da noi con in tasca un semplice passaporto comunitario.

«Straniera, ma almeno non vessata come oggi», spiega con rammarico. Irriconoscente, obietterà qualcuno. Eppure anche le statistiche, pur non aggiornate, raccontano nella crudezza dei numeri qualcosa di analogo: nel 2013 sono stati 44 mila gli stranieri che hanno fatto le valigie; lo scorso anno circa 100mila gli italiani che hanno deciso di abbandonare la Patria.

Elena, originaria di Sofia (Bulgaria) abita in Lombardia da oltre 20 anni, possiede un appartamento ancora da finire di pagare e ha un figlio che qui cominciò la prima elementare. Oggi è laureato in una delle più prestigiose università milanesi.

Dopo quattro anni di attesa, nel 2014 la donna ha ottenuto l’agognata cittadinanza. Con tanto di giuramento. «E da quel momento sono cominciati i miei guai. Una lotta con la vostra burocrazia», racconta. «Una sfida improba, che mi è costata e continua a costarmi, oltre al tempo perso, tanti soldi». Gli intoppi cominciano all’anagrafe. Elena, arrivata in Italia con il marito connazionale, nel frattempo ha divorziato. «In Italia risultavo con il nome da sposata e di conseguenza avevo tutti i documenti col suo nome. Dopo aver ottenuto la cittadinanza è cominciato l’incubo. Ho dovuto riprendermi il mio cognome. Codice fiscale, carta d'identità, libretto dell’automobile, patente, carte di credito, contratti gas, luce, eccetera, tutto da rifare. D’accordo, lo prevede la legge». Peccato che oggi, dopo mesi e mesi di code e centinaia di euro buttati in carte bollate e documenti vari, la neo-italiana sia ancora in attesa di poter riavere un nuovo bancomat, una Visa. E lo stesso dicasi per il libretto di circolazione. E la patente. «Quella almeno era arrivata- puntualizza Elena-, ma me l’hanno rispedita ancora il vecchio nome. Dunque sbagliato. Il risultato è che nel frattempo non posso ricevere nemmeno libretto della macchina perché le generalità devono corrispondere a quelle della patente». «Piccole» paresi burocratiche. Di quelle, però, che massacrano il vivere quotidiano. Oltre ai danni, poi c’è anche la beffa. Crudele. «Non vale più nemmeno la mia tessera sanitaria- racconta la donna-, da sei mesi sono in attesa di operazione, un intervento delicato ma le pratiche non vanno avanti. Da “clandestina” un posto in ospedale probabilmente me l’avrebbero già trovato...». Parole da...leghista, direbbero i soliti benpensanti.

Elena fino a qualche anno fa lavorava con partita Iva, di fatto una società individuale. E da straniera godeva di qualche privilegio: tariffe speciali, piccole agevolazioni, insomma quel welfare state di cui beneficiano decine di migliaia di immigrati. Adesso non più, visto che lei è diventata italiana. Senza quelle facilitazioni ha dovuto smettere. Introitti ridotti, balzelli cresciuti. Con la sua laurea in chimica, ha trovato uno posto part time da impiegata. Nello stipendio -misero- figurano anche i famosi 80 euro di Renzi. «Ma mi vien da ridere, visto che ho doppia cittadinanza quei soldi basteranno forse per pagare la Tasi», commenta amara.

Già perché avendo ereditato un appartamentino in Bulgaria, dovrà pagarci le tasse come seconda casa.

Finita qui? Magari. Suo figlio chiese la nostra cittadinanza, qualche mese dopo di lei. Ma a lui non è stata ancora concessa. Parossismo del paradosso. Elena, per il nostro Stato, è madre di uno straniero.

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