Quell'intesa che rassicura l'Europa

Quell'intesa che rassicura l'Europa

La mattina di giovedì scorso, alla fine di quell'approccio telefonico, cioè del primo contatto diretto voluto dal Cav con il segretario del Pd dopo il grande freddo durato mesi e mesi, Matteo Renzi ha avuto il coraggio di porre il problema per quel che è: «Presidente, allora mi posso fidare? Ci sono state delle incomprensioni in passato...». Dall'altro capo del telefono un Silvio Berlusconi, al solito affabile ma guardingo, si è limitato a rispondere: «Lasciamo stare il passato, pensiamo al domani». «Ma no pres., parliamone», gli ha risposto con enfasi toscana il segretario del Pd. Ma il Cav, proiettato ormai solo sul futuro, l'ha chiusa lì: «Io sono un uomo di parola». Messe da parte le incomprensioni e i «non detti», i qui pro quo che risalivano al tempo dell'elezione di Mattarella al Quirinale, la trattativa sull'intesa, che mette fine a questa legislatura e pone le basi per la prossima - con l'approvazione di una legge elettorale sul modello tedesco da parte del Parlamento entro la dead line del 10 luglio e le elezioni che potrebbero tenersi in una delle tre domeniche che vanno dal 24 settembre fino all'8 ottobre -, dopo quel colloquio si è lasciata dietro le ultime curve e si è lanciata sul rettilineo finale. Renzi definisce l'intera operazione, partita lo stesso giorno in cui il segretario del Pd metteva in campo quello «specchietto per le allodole» che era la proposta del Mattarellum modificato, «un capolavoro». Berlusconi la sera di quello stesso giovedì si è goduto in poltrona un intero Blob su Rai3 che, come ai bei tempi, era dedicato a lui: la sua faccia faceva capolino per più di un quarto d'ora in tutte le situazioni e in tutte le salse. Insomma, la solita presa in giro. Ma, invece di essere contrariato, il Cavaliere si è limitato a dire con un sorriso mezzo soddisfatto: «Cosa vogliono dire, che sono tornato centrale?». Poi, a chi gli chiedeva se si fidasse o meno di quel Renzi che lo aveva deluso in passato, ha sentenziato ricorrendo al tradizionale pragmatismo: «Se mi fido? Sì, perché è un accordo che conviene a lui».

E già, non bisogna ricorrere al Machiavelli per sapere che gli unici accordi che reggono sono quelli in cui entrambe le parti hanno qualcosa da guadagnare. E, in questo caso, indubbiamente, sono loro i due mattatori. Certo i grillini, che il capogruppo dei senatori Pd Rosato con pazienza ha tentato in tutti i modi di tirare dentro l'accordo, si assicurano una legge elettorale meno penalizzante del «verdinellum». D'Alema e Bersani si garantiscono un sistema che gli permette di costruire un soggetto di sinistra. Salvini elezioni presto e la possibilità di scommettere su una «forza sovranista». Ma Renzi e Berlusconi sono gli unici ad avere in mano due biglietti della lotteria, invece, di uno solo: entrambi, dal centro dello schieramento, sono egemoni sul proprio versante di riferimento, centrosinistra e centrodestra; e, in caso di necessità, qualora dalle urne non uscisse una maggioranza, sono quelli chiamati a garantire la «governabilità» del Paese in una forma di «consolato». È proprio questo sistema la rete di sicurezza, la garanzia di stabilità che viene data a livello internazionale per evitare che i mercati comincino a speculare sulle elezioni in autunno: non per nulla in questi giorni di G7 il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha recapitato un messaggio comune dei «due contraenti» alla cancelliera Merkel per annunciarle che l'adozione di un sistema elettorale sul modello tedesco è la premessa per dare al nostro Paese una «stabilità» teutonica. Del rest, in questa fase di grandi sconvolgimenti, non ci sono molte alternative: o si cavalca il «populismo» come Trump a Washington; o lo si interpreta come la May a Londra; o lo si contiene e lo si gestisce, appunto, come hanno fatto Macron a Parigi o i popolari e i socialdemocratici a Berlino. In più, la soglia di sbarramento del 5%, che è parte integrante dell'intesa, semplificherà la nostra geografia politica molto più di quanto hanno fatto venti anni di maggioritario: al massimo in Parlamento ci saranno 5-6 gruppi e non i 15 che ci sono ora.

Naturalmente non sono mancate e non mancano le resistenze. Innanzitutto, le vittime designate: gli abitanti della terra di mezzo, i centristi di ogni dove. Il segretario del Pd si è incontrato con gli alleati che ha in quel mondo: Casini, da realista, ha capito l'antifona; poi ha visto Verdini e, dopo ancora, Alfano, che l'hanno presa tutt'altro che bene. «Certo, se Berlusconi se ne facesse carico...», ha sospirato il leader del Pd con i suoi, ma è inutile dire che da quell'orecchio il Cav ci sente poco. Con Calenda, cioè il candidato a tutto, Renzi è stato alquanto chiaro: «Se vuoi venire nel Pd, un posto te lo trovo. Se vuoi andare con Berlusconi, vai pure. Se, invece, resti nel mezzo sei finito». E l'altro, che due mesi fa si era offerto al Cav, ha risposto: «Vengo nel Pd». Anche dentro il partito non sono mancate le resistenze. Il ministro Delrio, per nulla convinto, ha riportato a Renzi i dubbi di Prodi. «Vabbè, questo è quello che dice Prodi - gli ha risposto il segretario del Pd -, noi, però, abbiamo il nostro progetto». Ma, dato che l'altro è rimasto rigido sulle sue posizioni, lo ha salutato con una frase severa, pronunciata con tono bonario: «Vedi, Franceschini è un tipo complicato, ma le situazioni le capisce al volo. Invece, la politica, caro Graziano, non è roba per te». Qualche problemino il segretario del Pd lo ha avuto anche con i suoi collaboratori più stretti: con il nuovo sistema, infatti, molti non si sentono al sicuro. «Perché dobbiamo rinunciare ai 20 seggi in più che ci darebbe il Mattarellum?», gli ha chiesto Guerini. Mentre Lotti, che per due anni ha avuto con Verdini un filo diretto, non è certo felice di lasciare l'alleato di un tempo al suo destino. Né il segretario del Pd è impressionato dagli «altolà» che gli vengono dai cosiddetti poteri forti: dalla Confindustria a quelli più vicini, come De Benedetti e dintorni. «La verità - ha spiegato ai suoi - è che vogliono governare loro. Con i loro Tar, le loro cene, i loro patti di sindacato, la loro borghesia buona, le loro illuminanti analisi, il loro odio verso il popolo prima che verso i populisti. Io, comunque, se sono convinto di una cosa, reggo. E per noi è essenziale andare al voto prima della legge di stabilità. Ho già in mente i passaggi successivi, saranno suggestivi: ho già un'idea per abbassare le tasse davvero».

E il Cav? Lui problemi dentro Forza Italia, naturalmente, non ne ha. E Salvini? Con il suo cerchio stretto Berlusconi è stato chiaro: «O cambia, o sarà marginalizzato». Ma per lui, che si sente forte della nuova «centralità» che ha assunto nella politica italiana, Salvini è l'ultimo dei problemi. «Intorno a me - ha raccontato al suo stato maggiore - c'è un'aria migliore di quella del 2013. Vedrete che nelle prossime settimane saliremo, e di molto, nei sondaggi. Io la mia campagna la farò contro i grillini. Mi hanno raccontato che vogliono mettere in lista 30 esponenti di Magistratura democratica, che Di Maio va in giro nelle categorie per chiedere nomi per il governo, che pensano ancora a Davigo come premier. In più hanno nel programma la patrimoniale, la tassa di successione e la reintroduzione delle tasse sulla casa come in Francia. Sono dei giustizialisti pauperisti». Insomma, i veri avversari sono Grillo e i 5 Stelle. Il resto viene dopo. E poi c'è la campagna elettorale da fare («la faremo in costume»), con le incognite giudiziarie dei processi a Milano e a Bari, che potrebbero interferire; e un occhio rivolto sempre alla Corte di Strasburgo, che potrebbe sentenziare proprio nel bel mezzo dei comizi.

Tutti discorsi che dimostrano una cosa: sia il Cav, sia il segretario del Pd hanno ormai la testa sintonizzata sulle urne. Pensieri che tirano in ballo Mattarella, cioè il presidente che dovrà sciogliere le Camere e fissare la data del voto. «Il capo dello Stato - ha detto sicuro Renzi a chi gli è accanto - non può che essere contento.

Stiamo facendo quello che ci aveva chiesto: una legge elettorale sul modello tedesco, simile sia alla Camera che al Senato; che sarà approvata probabilmente da un'ampia maggioranza. Una legge, appunto, che rende il Paese pronto al voto».

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