Questione di stile

Forse davvero il Paese, o meglio la sua classe dirigente, ha perso il senso delle cose.

Questione di stile

Forse davvero il Paese, o meglio la sua classe dirigente, ha perso il senso delle cose. Che un ministro degli Esteri (Luigi Di Maio), per di più di un governo di unità nazionale sia pure dimissionario, arrivi ad accusare un leader della maggioranza (Matteo Salvini), che gli ha consentito per più di un anno di stare alla Farnesina e di decidere le sanzioni alla Russia, di essere venduto a Putin, cioè al nemico, è un'enormità.

Nella foga della campagna elettorale, si è persa la percezione del significato delle parole e si sono smarriti il senso della misura e la consapevolezza dei ruoli. Se le parole avessero un peso, dovrebbe scattare per il leader della Lega l'accusa di alto tradimento, ma le parole del capo della nostra diplomazia volano, perché chi le pronuncia non ha contezza di quelle che dovrebbero essere le conseguenze di ciò che dice. Più che altro è l'ennesimo episodio che dimostra come il decadimento delle istituzioni abbia raggiunto il suo apice con l'avvento del grillismo, in tutte le sue versioni, nella stanza dei bottoni.

Eh sì, perché la condotta del ministro degli Esteri come quella del premier, del ministro dell'Interno e del ministro della Difesa di un governo dalla natura istituzionale come l'attuale, nel periodo che precede le urne dovrebbe richiamarsi all'imparzialità. Una volta per garantire la neutralità prima del voto tra i partiti che avevano fatto parte della stessa maggioranza addirittura si mettevano in piedi dei governi elettorali, spesso presieduti dal presidente del Senato, che facevano dell'equidistanza la propria virtù. In quest'occasione nessuno ha pensato che ce ne fosse bisogno, non fosse altro perché un governo con una maggioranza di unità nazionale ha di per sé le stimmate dell'esecutivo istituzionale e dovrebbe garantire almeno nei suoi ministri maggiori un comportamento equanime.

E invece niente. Un altro limite è stato superato. Di istituzionale a quanto pare Di Maio ha solo la cravatta e il colletto inamidato della camicia rigorosamente bianca. Il suo atteggiamento stride con la posizione assunta da Mario Draghi, che ligio al profilo equidistante che caratterizza il momento, ha tenuto a dire appena qualche giorno fa che l'Italia ce la farà qualsiasi sarà il colore del prossimo governo. Ora, non si può pretendere da Di Maio lo stile del premier dimissionario, ma si sperava che in questi quattro anni e mezzo trascorsi in diversi ministeri avesse imparato qualcosa delle regole che dovrebbero ispirare chi occupa ruoli di primo piano nella macchina dello Stato e un minimo, dico un minimo, di galateo politico. Speranza vana.

Solo che il suo comportamento provoca danni e getta ombre sull'intera nazione. Se un giornale o un politico critica Salvini per i suoi rapporti con la Russia, si è sempre nell'ambito di una campagna elettorale sia pure brutta, ma l'inquilino della Farnesina non può lanciare accuse per sentito dire, né può prendere a pretesto la scoperta di una spia russa (in questo momento ne gireranno a centinaia nelle capitali europee) per dare del traditore ad un avversario politico: deve portare prove inoppugnabili prima di parlare e non blaterare supposizioni all'insegna della propaganda. Perché le sue parole danneggiano a livello internazionale l'immagine del Paese, l'operato del vecchio governo che vedeva Salvini nella maggioranza e mettono in cattiva luce l'azione del prossimo che ancora deve nascere. Anzi la dimezzano, perché qualsiasi iniziativa assumerà sul dossier Ucraina l'esecutivo che verrà dopo le elezioni, sarà interpretata come un favore a Putin, se chi è stato a capo della diplomazia italiana per tre anni tratta alla stregua di spie russe i suoi possibili successori.

Insomma, quello di Di

Maio è un operato inqualificabile. Né è un'attenuante la paura per l'esito del voto che ha fatto perdere la testa al Pd e ai suoi alleati. La democrazia pretende stile e correttezza anche di fronte ad un'ipotetica sconfitta.

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