"Quote italiane pure in radio". Il sovranismo che suona male

La proposta di Morelli (Lega) in realtà è inutile: nelle classifiche i testi nostrani sono ben rappresentati

"Quote italiane pure in radio". Il sovranismo che suona male

Ci risiamo. Puntuale come le tasse, arriva la proposta di «nazionalizzare» la musica trasmessa dalle radio. Più brani italiani e meno stranieri. È ormai un rito che si ripete, più o meno, all'inizio di ogni legislatura. Incessabile e, finora, sostanzialmente senza conseguenze pratiche. Stavolta tocca ad Alessandro Morelli, fino all'anno scorso direttore di Radio Padania e ora presidente della commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera. «La vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica», ha detto. E ha preparato una proposta di legge, cofirmata da altri parlamentari (Maccanti, Capitanio, Cecchetti, Donina, Fogliani, Giacometti, Tombolato e Zordan), nella quale in pratica si chiede alle radio di trasmettere una canzone italiana ogni tre. Sostanzialmente sarebbe la «playlist sovranista». Prima gli italiani (i brani), poi il resto.

Il progetto prevede anche, giustamente, un occhio di riguardo per gli esordienti che muovono i primi passi nel mondo musicale: le loro canzoni dovrebbero rappresentare il 10 per cento della playlist, ossia dei brani trasmessi ogni giorno da ciascuna emittente. È un progetto che discende direttamente, pur con qualche differenza, dalla legge «pioniera» in materia, ossia la Toubon che dal 1994 in Francia regola il flusso radiofonico. Là un impeto di grandeur. Qui uno sbuffo populista.

Al netto delle connotazioni politiche o polemiche, resta però la realtà. La musica leggera popolare non è ingabbiabile dalla normativa perché segue i flussi del tempo, indica lo «zeitgeist» e, di solito, arriva prima del legislatore. I francesi hanno sempre ascoltato più musica francese di tutto il resto, e difatti sono pochi i cantanti francesi conosciuti anche fuori dalla Francia. Gli italiani invece hanno per decenni tendenzialmente ascoltato molta più musica straniera che italiana, almeno in radio. Ma la situazione è cambiata. Assai radicalmente. E non da ieri. Capita spesso che nella top 10 di vendita la musica italiana rappresenti quasi il totale. E che le playlist radiofoniche siano «piene» di canzoni nella nostra lingua.

Per capirci, questa settimana nella top 10 di vendita dei singoli della Fimi ci sono nove brani italiani. In quella radiofonica, tra i primi dieci, cinque sono italiani (e non è ancora rilevato complessivamente «l'effetto Sanremo»). Insomma, grazie all'indubbio miglioramento delle produzioni e a un innegabile passo avanti dei compositori, il pop italiano ha ridotto il gap nei confronti della musica anglosassone. La nostra musica quindi non soffre più di quel complesso di inferiorità che ha fatto disastri tra gli Ottanta e il Duemila, trasformandoci in sperduta provincia dell'impero. Ora abbiamo produzioni all'altezza.

Perciò un intervento «protezionista» a questo punto è, se non inutile, quasi dannoso. La nostra canzone è cresciuta grazie alla «competizione» con le realtà straniere. Ha saputo accettarle, assorbirle, farle proprie. E ora è competitiva.

L'autarchia non giova alla composizione musicale, anzi la placa, la normalizza, la rilassa quando invece dovrebbe essere sempre aperta ai confronti. La presenza «garantita» in radio significherebbe spegnere questo fuoco competitivo. E quindi riportare indietro di qualche decennio la nostra musica.

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