Per la felicità a volte basta una parola: «Eccomi». Tutto qui, presente a te stesso. A casa. Perché a volte succede che casa non sia più casa. Perché anche una coppia come Jacob e Julia, sposati e con tre figli, «due brave persone, che si amano, che ce la mettono tutta», alla fine può frantumarsi. E allora la felicità di esserci è il sogno di Jonathan Safran Foer (che ha due figli, ed è divorziato). Here I Am. È il suo nuovo romanzo, undici anni dopo il successo di Molto forte, incredibilmente vicino: un librone di 666 pagine, Eccomi, appena pubblicato da Guanda, che Foer (...)
(...) presenta in Europa proprio a partire da Milano. Dove è grigio, quasi piove, e lui (che a 25 anni aveva già scritto Ogni cosa è illuminata) è un quasi quarantenne un po' timido, con gli occhiali, la camicia a quadretti di colore salmone, le New Balance non proprio new, i pantaloni marrone-senape. Parla di felicità.
Nel libro tutti vogliono «tornare alla felicità», la inseguono sempre. Ci arrivano mai?
«La felicità è quella cosa che esiste ovunque, ma non dove sei. Ti ricordi quanto eri felice in passato, ti immagini quanto sarai felice in futuro. Qualche volta la felicità esiste solo nella fantasia: le case che Julia immagina di ristrutturare, quelle che Jacob vorrebbe comprare, Sam che trascorre ore e ore su Other Life».
Quindi si può solo inseguire?
«La ricerca della felicità è qualcosa che può spingere i protagonisti a cambiare, ma può diventare un problema. Julia e Jacob ripetono spesso: Inseguendo la felicità smarriamo la soddisfazione».
Lei è felice?
«La felicità cambia: quando ero giovane era un grande traguardo; da adulto è in cose diverse, più quotidiane. Come nei miei romanzi: nei primi due ci sono grandi voci, grandi eventi, grandi idee. In quest'ultimo ci sono cose piccole, precise, i dettagli della vita quotidiana: che cosa cucinare per i bambini, le stanze di casa, le conversazioni fra Jacob e Julia, i fraintendimenti».
Ma lei è felice?
«Credo che ciascuno di noi ci pensi. Ora per me è un momento particolare, perché il mio libro è appena uscito: e sono felice, ma è complicato. È un prodotto tutto mio, molto intimo, che diventa pubblico: condividerlo con gli altri è un rischio e, necessariamente, ti porta a perdere qualcosa in termini di privacy e di proprietà».
A un certo punto tenta una specie di risposta alla domanda di Amleto.
«Essere o non essere. È il problema di Eccomi: la maggior parte delle cose nella vita non sono o qui o lì, stanno un po' nel mezzo, qui e lì. Così è per Jacob: è abbastanza un padre devoto, è abbastanza un bravo scrittore. Di solito non bisogna scegliere fra qui o lì ma, di fronte a una crisi, come quando Julia scopre i suoi messaggi sporchi con un'altra donna, non c'è più qui e lì, ma qui o lì: è l'essere adulto, un uomo».
Nei romanzi precedenti parlava di grandi tragedie: l'Olocausto, l'Undici settembre. Qui c'è una piccola tragedia familiare, la crisi di una coppia benestante di Washington, sullo sfondo di una più grande: un terremoto devasta il Medio Oriente e i nemici di Israele ne approfittano per invaderlo. Perché racconta sempre tragedie?
«Sa, una volta c'era un uomo. Aveva una vita così bella, che non c'era niente da dire. Una storia ha sempre a che fare con un problema. Jacob dice a suo cugino Tamir, che è arrivato da Israele: Sei fortunato, hai una vita grande. E Tamir: Il tuo problema è che non hai abbastanza problemi».
Com'è che Jacob e Julia, con la loro vita perfetta, finiscono «schiacciati da tutto quel vivere»?
«Hanno sempre più capacità, più soldi, più figli, più cose di cui prendersi cura, più impegni, più problemi da risolvere: i dettagli della vita quotidiana finiscono per schiacciarli. Mentre la loro esistenza migliora all'esterno, loro diventano sempre più tristi dentro».
Nessuno è all'altezza delle aspettative, né coi figli, né in amore. È sempre così?
«Sa, dipende. Alcuni hanno aspettative basse. E allora sono facili da corrispondere...».
Un tema centrale è l'identità ebraica: qual è il suo rapporto con essa?
«Non sono stato educato religiosamente, ma ho ricevuto in parte una formazione ebraica, conosco le storie, il calendario, i rituali e ho portato tutto con me, attraverso la mia vita. La mia identità ebraica è importante per me. È qualcosa che è sempre lì. Ne parlo, ne discuto, ci penso».
Affronta anche un tema coraggioso in un romanzo, come l'antisemitismo.
«Uno dei motivi è l'ansia. In America se ne parla poco, ma esiste. È una marea crescente in Europa. Ma il nonno Irv è una figura divertente, caricaturale: le sue provocazioni non sono la realtà».
Però Israele viene invaso dai nemici.
«Beh, l'Iran non vuole costruire la bomba per gelosia... Non è un mistero quello che i nostri vicini vogliono fare, ma non credo che il pericolo sia dietro l'angolo. Comunque nel delineare lo scenario di guerra ho chiesto a esperti militari. Non è fantascienza».
L'anno prossimo avrà quarant'anni. Di che cosa ha paura?
«Della morte. Anzi no, di sprecare il mio tempo, la mia vita. Di non usarla bene».
E che cosa sogna?
«Come i personaggi del libro, trovare qualcosa come una casa, un posto per stare in pace, dove uno possa essere presente incondizionatamente».
Come nel titolo, Eccomi?
«In realtà l'ho scelto alla fine. Per me era una frase importante mentre scrivevo, ma ancora non sapevo sarebbe diventata il titolo. Esprime il paradosso di Abramo, che risponde così a Dio quando lo chiama per chiedergli di sacrificare suo figlio Isacco; e insieme il desiderio di essere una persona sola, anziché persone diverse in situazioni diverse».
Sono passati undici anni dal romanzo precedente. Quanto ha impiegato a scriverlo?
«Due o tre anni, ma ho impiegato molto tempo a entrarci dentro. Alcuni scrivono per divertire, per intrattenere, e io non ho niente contro, anzi leggo volentieri i loro libri, ma non scrivo per questo...».
Ma il suo libro è divertente.
«Sì, ma il fatto è che io voglio scrivere di ciò a cui tengo. Devo sentirmi toccato dall'argomento».
E il prossimo?
«Non impiegherò undici anni».
Di più?
«No... Due o tre anni. Ma non è una risposta affidabile».
Eleonora Barbieri
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