Cronache

Il rapporto tra i media e la giustizia? Complicato e non sempre corretto

Il rapporto tra i media e la giustizia? Complicato e non sempre corretto

Spesso si parla del rapporto tra i media e casi di cronaca, interrogandosi su come i primi possano influenzare – in modo tanto positivo quanto negativo – i secondi. Certamente non è un tema semplice, le sfaccettature sono molte e non è possibile delineare uno schema preciso. Ne abbiamo parlato a lungo con tre interlocutori molto particolari, tutti prossimamente ospiti del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver: Giada Bocellari, avvocato di Alberto Stasi [in carcere con l’accusa di aver ucciso la sua fidanzata, Chiara Poggi, ndr], Gabriele Bardazza, consulente che da 25 anni ricostruisce eventi catastrofici per consulenze tecniche in ambito penale e civile [disastro del Moby Prince, incendio del Norman Atlantic, ecc, ndr] e Massimiliano Gabrielli, avvocato cassazionista del foro di Roma, specializzato in difesa di parte civile in processi sui disastri e mass tort [protagonista, tra gli altri, nel processo penale sulla Costa Concordia, Rigopiano, torre piloti di Genova e Strage di Viareggio, ndr].

Punti di vista spesso convergenti, ma con significative differenze. In ogni caso, molto interessanti per capire come il mestiere del giornalista venga interpretato da attori fondamentali all’interno di un’inchiesta da sviluppare. La prima domanda l’abbiamo posta all’avvocato Bocellari, chiedendole se, dal suo punto di vista, ci sono stati casi in cui i media hanno indirizzato negativamente l’andamento di un processo: “Si. Il delitto di Cogne [l’uccisione del piccolo Samuele per cui è stata poi condannata sua madre, Annamaria Franzoni, ndr] è stato il primo caso che a livello di avvocatura si è studiato in questo senso. È stato il primo caso mediatico per come lo intendiamo oggi, seguito poi dal delitto di Novi Ligure [Il massacro di una donna e di suo figlio da parte degli allora adolescenti Erica e Omar, ndr]. Da lì si è iniziato a capire che certe tematiche potevano interessare il pubblico. Invece che leggere il giallo c’era il caso di cronaca nera da seguire passo dopo passo, soltanto che il problema, secondo la mia personalissima opinione, è che non si riesce a distinguere la cronaca giudiziaria da qualcosa che invece non è cronaca, ma è fiction”.


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Un’esperienza, la sua, vissuta in prima persona, da quando – prima lavorando per lo Studio Giarda, poi in autonomia – ha iniziato a occuparsi dell’omicidio di Garlasco. Da quel momento, suo malgrado, anche l’avvocato Bocellari si è vista più volte sotto i riflettori: “Ci sono programmi televisivi, per esempio, che non fanno cronaca giudiziaria, ma qualcosa di diverso. Programmi che hanno iniziato a fare un processo parallelo, pubblico, che è molto più veloce di un vero processo. I tempi della giustizia, che tu faccia l’abbreviato o che tu vada in Corte d’assise, comunque richiedono mesi. Il processo mediatico è immediato, perché innanzitutto i concetti vengono banalizzati, vengono depurati da tutte le questioni che sono tipiche del processo penale. A me è capitato più di una volta di parlare con dei giornalisti e dire “scusate, ma dal punto di vista tecnico quello che dite non è corretto. La risposta è “ma questo la gente non lo capirebbe”. Se tu fai un processo parallelo a quello penale, togliendo però tutte le garanzie che l’imputato può avere, non spiegando i tecnicismi che invece dovresti spiegare, allora cosa stai facendo?”.

“Il tema è molto complesso”, aggiunge l’avvocato Bocellari, “e richiederebbe una tavola rotonda vera, seria e tra più competenze. Parto dal presupposto che io sono profondamente convinta dell’importanza del giornalismo in generale e soprattutto della cronaca. È fondamentale, è un diritto di tutti quello di essere informati di quello che accade nelle aule. Il problema è più etico. I giornalisti dovrebbero capire dove finisce la cronaca e dove inizia qualcosa che è tutt’altro. Mi ricordo che parlando con esponenti di un noto programma televisivo, che è in un certo senso l’emblema della deriva di cui sto parlando, dissi “vi rendete conto che voi di fatto consentite che delle persone vengano condannate ancora prima di essere processate?” la risposta è stata “con il nostro share teniamo in piedi la rete”. Come a dire: dei diritti del tuo assistito non ce ne frega niente. Il problema è informare o tenere alto lo share? Siamo su due piani diversi”.

Sul tema del rapporto media/verità è molto interessante il punto di vista di Gabriele Bardazza che, tra le varie attività di cui è stato importante attore, ha fatto parte dell’ultima Commissione d’inchiesta sul disastro del Moby Prince, fornendo, assieme agli altri membri, un contributo fondamentale per il raggiungimento di una verità reclamata dai parenti delle vittime per 31 anni: “La narrazione dei fatti”, ci dice Bardazza, “qualche volta diventa una narrazione tossica, ovvero una narrazione che introduce degli elementi che – proprio per l’abilità del giornalista – risultano poi essere estremamente suggestivi e che magari in qualche misura possono anche essere veri, ma che poi distolgono da quella che è la verità”.

Si sta parlando, in questo caso, dell’eventualità che un convincimento del giornalista possa influire sul suo lavoro di divulgazione. Una trappola in cui è molto facile cadere e da cui è invece difficile uscire, se non a costo di mettere in discussione il proprio lavoro e fare mea culpa. Gabriele Bardazza porta come esempio proprio quello della narrazione sul disastro del Moby Prince: “Nell’immaginario collettivo, ancora oggi, si è trattato di un evento determinato dalla presenza di nebbia e per la distrazione dell’equipaggio intento a guardare una partita di calcio. Questi due elementi - il primo entrato in qualche misura nel processo, il secondo neanche mai comparso su un documento – hanno influito pesantemente nell’accertamento della verità”.

Soffermandoci su questo punto specifico, abbiamo chiesto al dott. Bardazza se, dal suo punto di vista, certe notizie “depistanti” [e si sottolineano le virgolette, ndr] nascano per caso o se talvolta emerga il sospetto che il/la giornalista di turno si sia prestato a un gioco perverso con consapevolezza: “È un bel tema. Io penso che in alcuni casi possano essere somministrate delle false notizie. Ma nel caso del Moby Prince credo si sia trattato solo di una leggerezza. Nello specifico, il giorno dopo il disastro, un giornalista del Tg1, in chiusura del servizio, disse che al momento della collisione tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo era in corso una partita di calcio. E pose in forma dubitativa il fatto che, forse, l’equipaggio potesse essersi distratto. Questa supposizione cristallizzò nella mente dell’uditorio un fatto in realtà indimostrabile e del tutto fuorviante rispetto poi all’accertamento dei fatti”.

Ricordiamo, infatti, che il lavoro dell’ultima Commissione d’inchiesta ha stabilito in modo lapidario che a determinare il disastro non è stata né la nebbia né tantomeno la distrazione dell’equipaggio, bensì una manovra disperata per evitare la collisione con un terzo naviglio, al momento ancora non identificato, che il Moby Prince ha trovato improvvisamente sulla sua rotta di navigazione.

“Ci sono tanti altri casi”, aggiunge Bardazza, “in cui la narrazione di alcuni fatti assolutamente veri ha poi oggettivamente allontanato o fatto focus su una verità che in realtà non aveva niente a che fare con la verità vera”.

Anche lui – che del caso si è occupato – cita a esempio il delitto di Garlasco: “Pensiamo alla questione delle impronte latenti delle scarpe di Alberto Stasi nella villetta in cui si è consumato il delitto: Il 5 settembre 2007 [l’omicidio avviene il 13 agosto precedente, ndr] vengono fatti i rilievi sul pavimento per trovare le impronte latenti di Alberto Stasi. Nel momento in cui emerge il fatto che su quel pavimento le impronte non sono visibili, sui giornali la notizia che passa è “non ci sono le impronte di Alberto Stasi”. Sembra un dettaglio, ma cono due concetti profondamente diversi. 1) non le vedo 2) non ci sono. La conclusione che ne viene data è immediata: quindi Stasi non è mai entrato da scopritore in quella casa, ha mentito. Questo passaggio segna il processo in maniera significativa”.

Bardazza però non demonizza la stampa e, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta. Tutto il contrario. E per dimostrare quanto esso sia importante talvolta per il disvelamento della verità in casi controversi, cita un altro famoso caso: “Pensiamo alla vicenda di Hashi Hassan, incarcerato per l’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e scagionato grazie a un’inchiesta di Chiara Cazzaniga, che ha svolto una vera e propria attività investigativa, ha messo in fila gli elementi, si è accorta che qualcosa non tornava ed ha approfondito. Ecco, quando il giornalista ha acquisito tutto il materiale su un caso e ha avuto modo di studiarlo, quando dietro un servizio giornalistico c’è un lavoro rigoroso, serio, che non punta al sensazionalismo... allora sì che si può parlare di vero giornalismo d’inchiesta”.


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Diventa ancora più interessante, a questo punto, ascoltare cosa pensa l’avvocato Massimiliano Gabrielli sul tema. Interessante perché, nel panorama giudiziario italiano, Gabrielli rappresenta per certi versi un unicum, certamente il precursore di un certo modo di intendere il mestiere di avvocato. Al centro di grossi casi in qualità di avvocato di parte civile, confrontandosi spesso con veri e propri colossi e mettendo in atto non solo una difesa verso i più deboli, ma quasi una battaglia ideologica per punire questi colossi con l’unico linguaggio che conoscono – quello del denaro – Massimiliano Gabrielli ha sperimentato in tempi non sospetti un metodo per unire al mestiere da avvocato nella sua veste classica un’appendice mediatica che, negli anni, gli ha conferito non solo una certa notorietà, ma gli ha permesso di raggiungere dei risultati assolutamente non scontati. “Ho sempre creduto nello sviluppo di nuove forme di comunicazione”, ci racconta, “anche attraverso canali alternativi a quelli troppo spesso addomesticati, e credo che l'allargamento della platea degli addetti all’informazione sia un beneficio per contribuire allo spirito di civiltà che rende più vicina e comprensibile la Giustizia”.

L’avvocato Gabrielli fa riferimento alla creazione di tre blog che, nel corso di altrettanti processi [quello per i disastri della Costa Concordia e della torre piloti di Genova e quello per l’incendio del traghetto Norman Atlantic, ndr], gli hanno consentito di raccontare in presa diretta, ovviamente dal suo punto di vista, cosa accadeva udienza dopo udienza, con un linguaggio semplice e accessibile a tutti. Un attivismo, il suo, più volte censurato dagli stessi colleghi e, in un caso, anche da una procura, ma che nessuno ha mai potuto definire deontologicamente scorretto.

Come intende il rapporto con i media un professionista che in prima persona ha compreso quando la pressione mediatica possa influire sugli esiti di un processo? “Se parlate con un avvocato di parte civile come me, vi confermerà che le cause si fanno e si vincono dentro ma anche, o soprattutto, fuori dalle aule. Questa è la mia esperienza. Il caso Costa Concordia aveva un’attenzione mediatica straordinaria, che ha influenzato a favore nostro anche i tempi del processo. In tutti i casi di cui mi sono occupato in cui c’è stata pressione mediatica, a me ha sempre giovato. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i giornalisti e credo che, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta – se fatto bene ed entro i limiti della correttezza - può contribuire ad accendere i riflettori della giustizia su un cold case, come anche a svegliare la coscienza sociale e l'attenzione degli investigatori su prassi e condotte illecite che rischiano di passare inosservate come se tutto fosse nella normalità: un caso tra i tanti è Mafia capitale scaturito anche grazie all'inchiesta di Lirio Abbate”.

In particolare, l’avvocato Gabrielli ritiene importante il ruolo della stampa nei casi di mass tort, ancor più in particolare quando l’attenzione viene focalizzata sulle parti deboli di questo tipo di processi: le vittime.

“Alla base dei grandi disastri come quello dell’hotel Rigopiano, della discoteca di Corinaldo, della stazione di Viareggio, giusto per citarne alcuni, c’è una questione di denaro. Le grandi società spesso risparmiano sui livelli di sicurezza a vantaggio dell’utile, creando il terreno fertile per il verificarsi degli incidenti. Le Procure, spesso, perseguono l'obiettivo più immediato e certo, esercitando l'azione penale sui responsabili in prima linea, evitando di guardare verso l'altro, ai vertici societari. Ed è qui che entrano in gioco gli avvocati di parte civile, nel ruolo di spinta ed allargamento delle visuali, vicariando il lavoro del Pubblico Ministero. Ma per fare ciò bisogna interpretare questo ruolo come quello di accusa privata, in modo attivo e senza limitarsi ad andare in scia al pm restando nelle retrovie delle aule, in attesa della sentenza. Nel processo penale purtroppo però le parti civili sono ancora oggi viste come ospiti scomodi, e spesso un fastidio se interferiscono con l'andamento del processo condotto da giudici e pm contrapposti ai difensori degli imputati. Per avere giustizia vera e completa le parti civili non devono stare nel mezzo, ma sopra le altre parti, la visione delle parti offese e del lato umano della vicenda, in questo tipo di processi, non solo è fondamentale, ma è soprattutto il modo di garantire che si ricordi sempre che alle spalle del fatto reato e delle responsabilità penali, c'è la morte di persone innocenti e oltre il processo resta la sofferenza delle famiglie delle vittime. E nel 99% delle volte, a consentire questa visione è proprio il giornalismo”.

Cosa possiamo dire in conclusione? Certamente emerge – tanto in positivo, quanto in negativo – l’importanza dei media, il peso che possono avere sull’opinione pubblica, ma anche sugli attori dei processi, su chi deve decidere se una persona meriti o meno il carcere o su chi deve decidere se punire un colosso societario per la morte di persone innocenti. Tutto questo dovrebbe far riflettere e non sarebbe insensato aprire una discussione sull’opportunità o meno di regolamentare – e magari porre un freno – alla spettacolarizzazione fine a sé stessa. Di certo ne gioverebbe il giornalismo.

Quello vero.

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