Il referendum e la resa dei conti dentro il Pd

Oggi il referendum ci appare come un nobile decaduto. Per ragioni innanzitutto materiali. Quando gli fu data attuazione c'era un'altra Italia

Il referendum e la resa dei conti dentro il Pd

Strana sorte quella dell'istituto referendario. Previsto dalla Costituzione del 1948 come correzione all'impianto rappresentativo della nostra democrazia, dovette attendere tanto per una legge che ne consentisse l'attuazione. Quando ciò avvenne, però, divenne uno strumento politico portentoso. A volte fu addirittura decisivo. Attraverso di esso sono state scritte pagine fondamentali di storia repubblicana. A iniziare da quella vergata il 13 maggio 1974, quando prevalse una maggioranza divorzista.

Oggi il referendum ci appare come un nobile decaduto. Per ragioni innanzitutto materiali. Quando gli fu data attuazione c'era un'altra Italia. Raccogliere 500.000 firme, necessarie per richiederlo, era impresa epica. I banchetti per strada abbisognavano di una sfilza di permessi. Gli autenticatori latitavano, ricattati spesso da qualche capufficio contrario. I notai erano troppo impegnati negli atti ordinari. Nei comuni, in particolare in quelli periferici, i moduli si smarrivano. Tutti graffiti di altri tempi, nei quali la politica era un'avventura. D'altro canto, però, raggiunte le sottoscrizioni richieste e superate le verifiche d'ordine formale e sostanziale, arrivare fino in fondo - alla proclamazione, cioè, di un vincitore e di uno sconfitto - non costituiva un problema. Con le percentuali di allora, superare il quorum richiesto del 50% dei votanti, era un dato scontato.

Con il trascorrere del tempo la situazione è cambiata. Addirittura, si è capovolta. Oggi le 500.000 firme possono essere raccolte anche in rete: un gioco da ragazzi. In compenso, superare il quorum si è trasformato in un obiettivo quasi proibitivo. Se la questione non è davvero dirimente; se il quesito non intercetta un'ondata di protesta montante, la vittoria dell'astensionismo diviene scontata. Con percentuali fisiologiche di non votanti che si aggirano intorno al 40%, infatti, basta che si aggiunga un 10% per i motivi più disparati e la consultazione perde valore. Chi ha interesse a far fallire un referendum, dunque, sa come fare. E spesso gli conviene non fare proprio niente: elementare Watson!

A questo punto sorge spontaneo un dubbio. Riguarda i referendum per i quali si voterà tra meno di un mese. È lecito domandarsi perché, di fronte a una tale prospettiva, confermata anche da tutte le rilevazioni demoscopiche fin qui effettuate, la segretaria del Pd abbia deciso di partecipare con entusiasmo alla campagna referendaria. Perché abbia appoggiato tutti e cinque i quesiti. Anche quelli per i quali avrebbe potuto legittimamente lasciare libertà di voto (o di non voto), come la natura delle questioni in discussione e le posizioni interne avrebbero consigliato. Perché, dunque, abbia scelto d'intestarsi una assai probabile sconfitta. Anche al prezzo di mettere in imbarazzo una parte del suo partito, che le norme sul lavoro in predicato d'essere abrogate le ha volute e le ha votate.

L'impressione è che a Elly Schlein quell'imbarazzo non dispiaccia affatto. E che l'adesione ai referendum sia un modo per svolgere un congresso di fatto. Un modo, cioè, per mettere nell'angolo i riformisti ponendoli nella condizione di dover scegliere tra la propria coscienza e il proprio partito. Non importa se, lungo tale deriva, il Pd finisca col perdere una sua positiva diversità: quella di essere ancora, a differenza di quasi tutti gli altri, un partito nel quale l'articolazione di posizioni interne sia possibile. Se così stanno le cose, il problema è più della minoranza interna che della Schlein. I riformisti nel Pd sembrano non avere più spazi. Ieri sulla guerra oggi sul lavoro: le loro posizioni sono sempre più ininfluenti e sempre più mal tollerate.

Se non reagiranno, saranno ridotti a un diritto di tribuna. Troppo poco, vista anche l'urgenza dei tempi. Per loro si pone, dunque, un quesito. E a porglielo, paradossalmente, è proprio quella cultura leninista che hanno provato a superare: «Che fare?».

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