L'epilogo più probabile di questa strana «crisi», a sentire ciò che prevede Matteo Renzi, potrebbe essere considerato l'apoteosi del paradosso. Spiega il leader di Italia Viva: «Ho quattro proposte: piano per le infrastrutture; premier eletto direttamente; una riforma della prescrizione diversa; cancellazione del reddito di cittadinanza. La prima la vogliamo tutti. La seconda riguarda tutti, ma se non c'è il centrodestra non si può fare. Restano le ultime due. E un sì su una delle due, almeno una, questa maggioranza me lo deve dire. Perché ormai, si dice a Firenze, siamo con i sassi alle porte. Senza un segnale passo all'opposizione. Conte, se ha i numeri, va avanti con i responsabili; se non li ha, i voti per sopravvivere glieli trovo io. Magari 5-6 dei miei».
Una volta si immaginava il Potere come un Moloch inamovibile, che trovava la propria alternativa solo in se stesso: il quarantennio Dc o del quadri-pentapartito. I sessantottini sognarono addirittura di mandare al Potere la fantasia. Poi fu la volta della seconda Repubblica dei Poli, dell'alternanza tra Berlusconi e Prodi oltre agli affini. Ma tra mille variabili l'ipotesi di un governo che restasse in piedi grazie a pochi responsabili e a un drappello di oriundi renziani, cioè di un pezzo di un partito che passa all'opposizione e lascia dietro di sé una retroguardia per garantire l'ossigeno a un governo morituro, be' questa, negli annali, non era mai stata contemplata.
Sarebbe l'immagine della Debolezza al Potere: a un governo già fragile se ne sostituirebbe uno ancora più fragile. Ma sarebbe anche l'immagine della debolezza di una classe dirigente che con la recessione, la pandemia del Coronavirus alle porte e un Paese che tutti gli indicatori descrivono immobile, invece di pensare in grande (un governo ambizioso, che faccia riforme di sistema come l'elezione diretta del Premier) non riesce a tirare fuori dal cilindro nulla di più che il governo della Debolezza. Appunto, la Debolezza al Potere. Solo che questa condizione è la somma delle debolezze strategiche degli attuali protagonisti. Renzi parla della sua mossa in questi termini: «Un capolavoro, sono tutti impazziti». Sembra una battuta del guerrafondaio dottor Stranamore, nel film di Stanley Kubrick. Ma se ha un merito la sua sortita è proprio quello di avere svelato le debolezze di tutti. Anche le sue. Siamo alle prese con una debolezza di sistema, letale per un Paese che precipita. C'è una maggioranza, quella giallorossa, che non funziona per gli stessi motivi per cui ha fallito la precedente, quella gialloverde: c'è il partito maggiore, i grillini, che ragiona per dogmi (prescrizione, reddito di cittadinanza); il Pd che per garantire l'equilibrio e legare a sé i 5 stelle, accetta questa condizione; i renziani che, invece, per identità e per attirare consensi tra i moderati, si rifiutano. Uno stallo da cui non si esce e manda in tilt pure i rapporti personali.
La sceneggiata con cui si è arrivati all'incontro Conte-Renzi della prossima settimana è un esempio di commedia all'italiana. Per giorni gli ambasciatori hanno bisticciato sul galateo istituzionale, su chi avrebbe dovuto chiedere il colloquio. Mercoledì dopo che in Senato il leader di Iv aveva elogiato l'unità nelle politiche europee, il premier gli ha inviato un sms: «Bravissimo!». L'interlocutore lesto, ha preso la palla al balzo: «È il momento di vedersi». L'altro, al solito: «Devi chiedermelo tu. Comprendimi». Renzi, a quel punto, si è deciso. L'episodio, però, rivela soprattutto la debolezza del capo del governo: Conte è passato dal «posso dire che... ?» rivolto a Di Maio del 7 giugno del 2018, con conseguente «no»; al «posso invitarlo... ?» di oggi. Figurarsi se può concedere un nonnulla su prescrizione o su reddito di cittadinanza.
Oltre alla debolezza intrinseca Conte paga pure l'assenza di un'alternativa: i responsabili, se ci sono, sono pochi. «Noi Dc - spiega Gianfranco Rotondi - non ci stiamo. Conte lo sa. E lo sa pure Renzi: lui vuole aprire un rapporto con Salvini, ma Salvini vuole le elezioni. Se Renzi spera che gli salviamo il governo per consentirgli di stare insieme alla Lega all'opposizione, sbaglia. Se stacca la spina, Salvini e Zingaretti si mettono d'accordo e ci portano alle urne a giugno o in autunno. Requiem per Forza Italia, grillini e Italia Viva». È la Debolezza di Renzi.
I dubbi, però, non si esauriscono. Davvero dopo il referendum sulla riduzione dei parlamentari, l'obbligo di ridisegnare i collegi, la recessione economica si può andare ad elezioni nel 2020? Salvini ci spera: ieri ha dato ragione a Renzi sulla riforma della giustizia, sui cantieri, sul reddito di cittadinanza, e l'ha spronato alla crisi per andare al voto. «Non può chiedermi la crisi - è la risposta dell'altro Matteo - per andare alle urne. Il progetto deve essere più ambizioso». Così Salvini rischia di morire di speranza: altra Debolezza. È la grande paura di Giorgetti, che sullo «schema» Renzi ci starebbe, eccome. Solo che su quella strada c'è una spina nel fianco, la Meloni. Salvini stesso ha tentato di convincerla che ci si può provare, ma invano. Cosa che ha mandato su tutte le furie Giorgetti: «Giorgia di politica non capisce un cavolo! (l'eufemismo è d'obbligo, ndr)».
Ma da un governo del genere, che avesse nel programma l'elezione diretta del premier, la Meloni potrebbe restare fuori? Certo avrebbe la possibilità di lucrare consensi, ma rischierebbe la deriva lepenista: tanti voti ma senza entrare nella stanza dei bottoni. Ennesima Debolezza. «Alla fine Giorgia entrerà - dice Michaela Biancofiore, ex forzista che frequenta Pastation il ristorante di famiglia dei due Matteo, Denis Verdini - farà il ministero della Difesa. Il premier, però, deve essere più politico. Non Draghi, non la Cartabia. Giorgetti? Lui andrà agli Esteri».
Siamo alla lotteria dei nomi del supposto governo che preoccupa il M5s. Voci che hanno indotto Conte a confidare ai ministri 5 stelle: «Per me i due Matteo hanno già un'intesa». O che hanno spinto il ministro Federico D'Incà a lanciare un ramoscello d'ulivo: «Gli spunti di Renzi vanno approfonditi». Un rischio che dovrebbe allarmare pure Zingaretti. Lui, per ora è fermo e minaccia il voto, ma ha un partito in subbuglio. Specie l'ala moderata. Il presidente dei senatori Marcucci non nasconde l'insofferenza verso il premier, dando la possibilità al renziano Roberto Giachetti, di soffiare sul fuoco: «Il Pd è tornato a essere il Pci». In più personaggi come Franceschini non asseconderebbero l'ipotesi elettorale del segretario. «Dario - confida Renzo Lusetti, amico di Franceschini dai tempi della Dc - ha in testa il Quirinale tra due anni. Per cui deve sopire, sopire. Ha un'indole forlaniana: quieta non movere et mota quietare». Quest'ala del partito, maggioritaria nei gruppi parlamentari, è la Debolezza di Zingaretti.
E siamo tornati al punto di partenza: la Debolezza è al Potere. Una condizione da cui potrebbe discendere qualsiasi paradosso.
«Parte un governo elettorale guidato dalla Cartabia - azzarda Renzi, a cui certo non manca la fantasia - che prenderebbe i nostri voti, dei grillini, di Forza Italia, di mezza Lega e di mezzo Pd, e che nel tempo, grazie alla paura per le urne, si trasforma in un governo istituzionale».
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