
Non potendo litigare con Mario Draghi, ai leader della maggioranza non resta altra possibilità che azzuffarsi tra loro. Si dilettano in questo senso ormai da un po', anche se con l'avvicinarsi dell'autunno (e della tornata amministrativa) il terreno di scontro inizia a spostarsi su quella che sarà la partita più importante: l'elezione del nuovo capo dello Stato. Una sfida che entrerà nel vivo nella prima settimana di gennaio, quando il presidente della Camera Roberto Fico - «trenta giorni prima che scada il termine» del mandato di Sergio Mattarella - dovrà convocare «in seduta comune» il Parlamento e i delegati regionali che saranno poi chiamati a votare il prossimo presidente della Repubblica (i cosiddetti «grandi» elettori saranno 1.009).
A incrociare i colpi, ormai con una consuetudine quasi banale, sono sempre più spesso Matteo Salvini ed Enrico Letta. Già martedì avevano duellato sul palco del Meeting di Rimini. Con il segretario del Pd che è tornato all'attacco di Claudio Durigon, il sottosegretario all'Economia della Lega che ha avuto la disgraziata idea di reintitolare ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, il parco di Latina già dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una proposta ovviamente scellerata che, non a caso, è diventata da settimane l'argomento con cui Pd, Leu e parte del M5s chiedono che Durigon faccia un passo indietro. Salvini replica puntando il dito contro il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, che il leader della Lega considera l'anello debole della compagine di governo. Un braccio di ferro, quello tra Salvini e Letta, che è andato avanti anche ieri, spostandosi però sul tema - evidentemente già caldo - del dopo Mattarella.
Se il segretario del Pd si impegna a sostenere Draghi «a essere il nostro primo ministro almeno fino alla scadenza naturale della legislatura nel 2023», il leader del Carroccio ribatte che l'unico obiettivo di Letta è «piazzare al Quirinale uno dei loro». Già, perché immaginare Draghi a Palazzo Chigi ancora due anni significa, di fatto, tirarlo fuori dalla corsa per il Colle. E per Salvini quello arrivato dall'ex premier non è un auspicio, ma un «diktat». «È di pessimo gusto - aggiunge - decidere cosa farà il signor Mario Draghi e sicuramente non sarà il piccolo Enrico Letta a farlo». Sul tema interviene anche il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti, notoriamente l'anima più moderata della Lega. Che infatti non si spinge troppo in là. «Per fare il presidente del Consiglio - dice - Draghi ha bisogno di una maggioranza parlamentare, perché siamo in una democrazia fatta così». Un'ovvietà, certo. Il cui significato è piuttosto banale: sia che l'ex numero uno della Bce rimanga a Palazzo Chigi sia che vada al Quirinale, ci sarà comunque bisogno dei voti della Lega. Non sarà, insomma, una decisione del solo Pd. Come, d'altra parte, è altamente improbabile che sia il solo centrodestra a indicare il successore di Mattarella. Anche sommando i voti di Lega, Forza Italia, FdI, Italia viva, i vari satelliti del centrodestra e i delegati regionali, si arriva infatti a quota 494 voti. Ancora sotto i 505 che servono dal quarto scrutinio per la maggioranza assoluta.
Ma che Draghi resti o no a Palazzo Chigi, sarà con ogni probabilità una decisione esclusivamente di Draghi, decisamente più forte e autorevole di un sistema politico per molti versi in crisi. D'altra parte, anche delle beghe di questi giorni - vedi il caso Durigon - il premier si è occupato poco o niente. Due giorni fa, si è limitato a dire a Salvini che la questione va risolta al più presto, ma non è sua intenzione mettere la faccia su questo tipo di polemiche. Che Draghi considera al pari di una sorta di «rumore di fondo». E non perché si reputi al di sopra della politica, ma perché - nonostante il semestre bianco - non c'è partito oggi che abbia la forza per mettere davvero in discussione il suo governo.
D'altra parte, è sostanzialmente questo il senso del ragionamento rivolto a Salvini quando gli ha fatto presente che il caso Durigon va chiuso velocemente. Prima che il ministro dell'Economia Daniele Franco sia costretto a togliergli le deleghe.
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