"Scusi, ma lei è una escort?" Viaggio nell'aula a luci rosse

Nei giorni di udienza del processo Ruby al tribunale di Milano, persino la cronista può essere scambiata per teste. Succede quando la giustizia non rispetta le donne. Nicole Minetti in aula: "Non provo alcun imbarazzo"

"Scusi, ma lei è una escort?" Viaggio nell'aula a luci rosse

Ci sono posti nei quali si arriva con un’unica apprensione: «Speriamo si accorgano della differenza». Tipo al tribunale di Milano, terzo piano, quinta se­zione penale: processo Ruby. Bis per l’esat­tezza. E invece niente: abbiamo i capelli rac­colti, la camicia bianca, le scarpe basse, i pan­taloni a sigaretta, perfino un anacronistico foulard legato attorno alla vita. E anche die­tro le spalle, più nascoste, proteg­giamo consuetudini normali, quasi tristi: niente vita notturna, nessuna dimestichezza col chi­rurgo plastico, lo stesso fidanzato da un tempo ormai increscioso, gli esami del sangue quasi com­pletamente nei parametri.

Ma nulla da fare. Qui, da mesi, nessu­no è esente dal sospetto, al riparo dalla «suggestione escort». Fuori ci sono trentuno gradi dispettosi e improvvisi e dentro c’è un’aula fresca ma bollente, con la gabbia di ferro per i detenuti pericolosi e una corte che scandaglia le vite, le abitudini sessuali, le intenzioni e le mutande delle imputate. Den­tro nessuno è esente da niente. E infatti... Davanti al tavolino degli «accrediti», dove ci si fa registrare prima e per entrare in aula, i cara­binieri assuefatti e gentili, seduti dall’altra parte ci «vidimano» e poi domandano camuffando a stento sbavature di giudizio: «Buongiorno, lei è una teste?».

Nel doverli correggere, siamo anche più in imbarazzo di loro. La verità è che, da quando è iniziato il «processo Ruby», le donne sono diventate tutte un immenso, po­tenziale campo di battaglia del so­spetto. Ieri gli imputati erano Ni­cole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora. In aula, la mattina, si è pre­sentata Nicole per assistere, guar­dandola in faccia, alla deposizio­ne della sua amica Melania Tumi­no e alla sua versione sulle serate ad Arcore. Nicole aveva le unghie dipinte di rosso, una borsa da si­gnora che le pendeva dal polso e la ferma certezza di non doversi di­mettere da consigliere regionale: «Nessuna vergogna, nessun imba­razzo ». Si è sistemata in prima fi­la, ha schifato le domande dei cro­nisti, fatto smorfie e linguacce agli affascinati avvocati accalcati qualche posto più in là. Si è sporta sul banco appoggiandosi «sul morbido», come fa quando è alle sedute in Regione.

E poi è uscita a testa alta dal tribunale: era filato tutto liscio fino a quel tacco inca­strato nella grata del marciapiede che ha frenato la sua corsa senza ostacoli. Intanto, dentro, andava in sce­na il resto. Caterina Pasquino, Maria Makdoum, Natascia Teatino. Tre modi diversi di essere «teste». A scandagliarle quattro modi iden­tici di essere giudici, donne. Ordi­nati tagli a caschetto, facce inton­se, occhiali colorati e orecchini pendenti: tutte uguali. Quel gene­re di donna che d’estate affitta una casa a Filicudi, che trascorre i fine settimana in Liguria e prepa­ra torte salate col finocchietto sel­vatico, che guida i rappresentanti di classe dei genitori e in centro ci va solo in bicicletta.

Ecco, era quel genere di donna che, affondata negli scranni della giustizia, affo­gata nella toga, vivisezionava i re­soconti delle ragazze di Arcore. Caterina traballava su trampoli e diffidenza: maglia gialla fluore­scente, pantaloni neri strettissi­mi, zigomi lisci e fronte bassa. Af­faticata dalla lap dance notturna, in ritardo per farsi assottigliare le sopracciglia dall’estetista,infasti­dita dalla convocazione «coatta», impigliata nella trappola del suo stesso rimmel. Le chiedevano del suo amico Nicola, quello che do­vrebbe fare la scorta a Silvio Berlu­sconi, di quando ospitava Ruby in casa sua e quella, in tutta risposta, le portò via «denaro, telefonino e altri oggetti». Si è anche messa a piangere, a un certo punto Cateri­na, ha tirato fuori dalla borsa un pacchetto di quei fazzolettini di carta che vendono a stock nei cen­tri commerciali, si è asciugata le la­crime svelte di rabbia «perché le altre hanno i soldi e io non ho nien­te, eppure sono qui» e poi ha rico­minciato a parlare, a farsi chiede­re dall’accusa con un’inelegante insistenza «ha capito la doman­da, signora?».

E Mora, e Ruby, e le telefonate a Michelle Conceiçao alle 22.29, alle 22.39, alle 22.43 «e perché tutta questa insistenza, si­gnora? ». E Nicole Minetti, e Arco­re e di nuovo Ruby... È sua la depo­sizione più lunga fino a quando non barcolla sul plateau e raggiun­ge la porta. Fino a quando non ri­tornerà a Napoli grazie a una col­letta fatta dai pm e dai giornalisti per comprarle un biglietto. È la volta di Maria Makdoum, classe 1990, musulmana, ormai si­gnora perché sposata a un ragaz­zo arabo conosciuto in Spagna, controllata e furbissima: a metà tra una gatta e un cobra. Lei ha le meches , la coda di cavallo, la fac­cia struccata e un golfino color car­ne pallida. Si sistema le ciocche dietro alle orecchie e si sistema anche lei: spavalda fuori dal sospetto «cioè, non le è sembrato strano che Lele Mora la invitasse a una cena nella quale si sarebbe dovuta esibire nella danza del ventre?!». «No...!». «Ma è vero che lei era l’amante del­l’ex prefetto di Napoli, Carlo Ferri­gno...? », «Amante... avevamo una relazione sentimentale...». «Ma lui era sposato...». E adesso tocca a Natascia che ha la voce bassa e sembra la commessa di un nego­zio di scarpe.

E infatti lo è. «Mah... ci saranno state venti, trenta ra­gazze... toccare dove?...».

A casa, a Meda, ti immagini anche che ab­bi­a una mamma con le mani gras­socce che odorano di varechina e passata di pomodoro, piante gras­se sui balconi arrugginiti, cesti di plastica per le mollette e tapparel­le stinte. Però quando la sua ami­ca Aris le ha detto che avrebbe po­tuto portarla a cena da Berlusco­ni, lei si è messa un vestito corto, i tacchi ed è fuggita dal tinello. An­che lei...

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