La guerra per gli italiani non esiste. È merito di un sortilegio di parole non dette. È un abracadabra non pronunciato. Il segreto è tutto qui: un tabù, un'omissione, una furbata. Se la guerra non la chiami non arriva. Scompare. Non si vede. Non se ne parla. Non c'è. È facile. Dovrebbero provarci tutti i popoli della terra. Se la guerra la chiami pace non è guerra. Se la chiami missione di pace è ancora meglio, ci metti dentro qualcosa di sacro, di santo, di altruistico. Se dici che vai a portare la pace sei come quelli che tirano pugni per placare una rissa. Noi siamo bravi a non raccontare le guerre, tanto che in Italia non c'è mai stata una guerra civile.
Lo stiamo facendo anche adesso, in questi giorni, nascondendo bene le parole, tarando aggettivi ed attributi. Se un drone americano parte da Sigonella per andare in Libia non stiamo affatto prestando le basi per azioni di guerra. No, è una gita panoramica per vedere cosa c'è a Sud del Mediterraneo, un viaggio di esploratori volanti, una passeggiata ad alta quota nel deserto per guardare in faccia degli omini che con la mano ci fanno ciao. E se un giorno per miracolo quella terra venisse conquistata e divisa in tre parti, neanche fosse la Gallia di Cesare, noi andremmo lì ad insegnare solo l'arte del buon governo. Non si sa come, non si sa perché. Non esiste infatti alcun patto diplomatico che assegna la Cirenaica alla Gran Bretagna, Fezzan alla Francia e la Tripolitania agli amici di Renzi. Non è un trattato di pre-guerra.
È solo la nostalgia di una canzone: Tripoli bel suol d'amor.Tutto questo insomma non esiste, perché non ha nome. È già successo nel 1999, quando gli aerei di D'Alema bombardarono Belgrado, ma anche allora non fu guerra, perché, come è scritto nella Costituzione, l'Italia e, sottinteso, ancora di più la sinistra italiana, ripudiano la guerra. No, non guerra, ma solo bombe che cadevano sulle case della Serbia. Fanno meno rumore. Se mai l'Isis, lo Stato islamico, dovesse mitragliare con i suoi soldati i tavolini di un ristorante o di un bar spezzando le vite di chi si trova lì per caso, neppure allora la chiameremmo guerra, ma terrorismo: una pace macchiata di sangue.La guerra, insomma, non deve mai diventare parola, fatto, politica. Non deve soprattutto mai entrare in Parlamento. L'ultima volta è stato nel '15. Poi ci ha pensato Mussolini, e da allora in poi per raccontarla, per finanziarla, per dire si va in Corea, solo con un'ambulanza, o in Libano o in Irak e in Somalia o in Afghanistan o al di là dell'Adriatico o sotto casa l'abbiamo sempre battezzata pace, una variante, una sfumatura di pace. Risultato politico: coscienza a posto e maggioranze salve; e poi a condire il resto le bandiere dell'Onu o della Nato.
Renzi deve aver pensato: lo faccio pure io. Infatti. Solo che come lui nessuno mai. Sulla guerra Matteo ha gettato una coperta di silenzio e un sorriso strafottente, uno di quelli che neppure ci prova a non prenderti per i fondelli. Quando per sbaglio si mette a parlare di Libia sembra che stia vagheggiando di una gita fuori porta. È una cosa da niente. Sta lì rannicchiata tra una stepchild adoption e una Salerno-Reggio Calabria infinita. Non merita un vertice di maggioranza e neppure un caffè con Mattarella. Non entra in Parlamento, non fa la spola tra Camera e Senato, non va neppure troppo evocata e, quando sarà, la chiameremo Colei che non si può nominare. La guerra non è una scelta su cui giocarsi una fiducia. Non la merita. Non suscita il dramma etico delle Unioni civili e non ha il senso pratico del Milleproroghe. La guerra, questo vento di guerra, non scuote le viscere elettorali quanto un gestaccio all'Europa. La guerra, se davvero ti passa l'onestà di chiamarla così, è qualcosa di triste. Al massimo può scapparci una domanda di Fabio Fazio al nuovo Rischiatutto. Matteo invece non vuole rischiare. Sta armeggiando con la sua collezione di maggioranze variabili, con un Vendola di qua, un Verdini di là e un Alfano sempre troppo in mezzo.
Soprattutto sta costruendo il renzismo e occupando le caselle del potere. La guerra non viene bene in una slide. Il solo pensiero fa venire il braccino ai pianisti in Parlamento. È una cosa brutta e troppo seria. Chiamiamola pace. E passa la paura.Vittorio Macioce- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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