Per quanto i venti (almeno in Italia) soffino in poppa al robusto vascello sovranista, la Lega di Matteo Salvini non è autosufficiente. E un modello politico che abbandoni il centrodestra per passare allo schema destra-destra, non è destinato a essere vincente. Almeno al momento, perché in una politica dalle geometrie sempre più rapidamente variabili e dalle convergenze mai così parallele, bisogna stare molto attenti a leggere i dati elettorali che trasformano le chiacchiere da buvette e l'ormai quotidiano rito del sondaggio in voti che finalmente diventano di pietra e piovono sulle teste.
E così se le urne di domenica hanno certificato il sorpasso del centrodestra che dalla guida di 38 capoluoghi è passato ad amministrarne 54 e il crollo del centrosinistra che da 57 è precipitato a 40, è proprio sul modulo di gioco che vale la pena di riflettere. Soprattutto perché a vincere è stato appunto il centro-destra, diciamo il classico tridente Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia e non quel destra-destra che per la verità più Giorgia Meloni e i meloniani che Matteo Salvini troppo spesso indicano come la strada maestra per conquistare il governo del Paese. Questo perché, pur in tempi di sovranismo montante e voglia di destra crescente, a rappresentare la maggior parte degli italiani non possono essere leader e partiti che consentano alle forze centrifughe di spostare troppo verso le ali estreme programmi e baricentro. Così come dimostra Marine Le Pen in Francia, dove il suo progressivo e costante aumentare di voti ha avuto come reazione il coalizzarsi di tutte le altre forze pronte a unirsi in un unico comitato di salute pubblica per evitare il «pericolo fascista». Una grande ammucchiata che è l'unica possibilità di sopravvivenza per una sinistra italiana ed europea mai così sprofondata in un vuoto di valori e programmi.
Perché sarà anche una questione di uninominalismo e ballottaggi, leggi e meccanismi elettorali che Oltralpe possono inchiodare all'irrilevanza politica anche un partito che prenda milioni di voti e raggiunga percentuali enormi -come quello della Le Pen -, ma le leggi della politica sembrano dire proprio questo. E così anche una Lega salviniana e sovranista che solo pochi giorni fa alle elezioni europee aveva sfondato, è stata costretta alla resa in grandi città come Bergamo e Cremona, ma anche in tanti altri centri più piccoli, ma non meno significativi per la nostra geopolitica. E sarà anche una questione locale, ma da quelle parti cominciano a dire che nemmeno l'arrivo del Capitano a Paderno Dugnano (47mila abitanti) ha impedito la sanguinosa sconfitta del centrodestra. Tutti tasselli che si aggiungono, incrinandone il mito dell'invincibilità, a sconfitte pesantissime come quella di Brescia e a quella probabile di Milano se per il sindaco si fosse votato ieri anziché fra due anni. Un asse lombardo, si capirà bene, che costituisce non solo la robusta spina dorsale economica del nostro Pil, ma anche un laboratorio politico da cui esce vincente quel partito dei sindaci con il portafoglio a destra (Giorgio Gori e Giuseppe Sala), ma il cuore a sinistra su cui l'ampio mondo progressista così orfano di leader in questo sfilacciato dopo Renzi, potrebbe tentare di ricostruire un tessuto politico e sociale.
E non è infatti un caso che proprio l'arcigna Le Pen abbia deciso di abbandonare la gloriosa fiamma e l'epica storia del Front National di papà Jean-Marie, per diluire il partito in un più rassicurante Rassemblement national che cerca di abbandonare i perdenti territori di quella destra-destra che proprio in Francia aveva cominciato il suo cammino nei meandri della democrazia rappresentativa.
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