La smania di gestire poltrone e nomine

Le poltrone dietro lo stallo. Il leghista Bagnai: "Avremmo potuto mettere nel programma anche l'incendio di Nerone..."

La smania di gestire poltrone e nomine

Nel regno dell'irrazionale, in cui le strane trattative per la formazione del nuovo governo hanno trasformato l'Italia, almeno c'è qualcuno che dice qualcosa di logico, di comprensibile, di stringente.

Alle 10 del mattino, nello spiazzo che divide Palazzo Madama da Palazzo Giustiniani, il professore-senatore Alberto Bagnai, una delle teste d'uovo che Matteo Salvini ha conquistato alla sua causa, senza tanti fronzoli, arriva al punto che è alla base della nascita del governo grillo-leghista. «Non stiamo a parlare di programmi o di altro», spiega l'uomo che ha messo sul banco degli imputati l'Unione europea: «Noi al primo punto del programma avremmo potuto mettere anche l'incendio di Nerone. Non è quello l'importante. L'importante sono quelle 200-300 nomine, che stanno venendo a scadenza e che l'ineffabile governo Gentiloni, o qualcun altro, avrebbe tranquillamente messo all'incasso».

Finalmente c'è un barlume di luce su quello di cui si è parlato in questi giorni nelle riunioni che si sono svolte nel palazzo dei gruppi della Camera, in uno dei piani alti del Pirellone, nello studio di un commercialista meneghino e in una sala riunioni dell'Hotel NH di Milano. Alla base del governo del «cambiamento», cioè l'intesa che nasce dall'unione di forze che in Europa sono agli antipodi (il succedaneo italiano di Podemos spagnolo, cioè i grillini, e la costola nostrana del Front National lepenista, cioè i leghisti), c'è un accordo di potere. La spartizione di una grande torta che, nelle intenzioni dei partecipanti, dovrebbe ridisegnare la mappa del potere in Italia. Così, quelli che accusano gli altri di poltronismo, si sono messi d'accordo, in ossequio alla legge del paradosso, sulle poltrone.

Per cui non bisogna stare tanto attenti al programma, quello è un elenco da capitoli che chissà mai quando saranno attuati, semmai saranno attuati. Ad esempio, prima di introdurre il reddito di cittadinanza, sarà necessario riformare i centri per l'impiego e, a sentire il prof De Masi, uno dei guru del M5s, «ci vorranno cinque anni». Tutto sarà rinviato alla prossima legislatura. Anche la proposta della flat tax, viste le risorse a disposizione e i tanti impegni presi rischia, alla prova dei fatti, di essere declinata molto, ma molto, a ribasso. E l'abolizione della Fornero, diventerà, al massimo, un blocco dell'aumento dell'età pensionabile ai livelli attuali. Nulla di più. Tante parole perché le parole, come si sa, non costano nulla, e bastano e avanzano per avere il «sì» sul web della base del movimento.

Insomma, al di là delle dichiarazioni roboanti di Salvini al Quirinale, nel programma, come dice Bagnai, potrebbe esserci scritto anche «l'incendio di Nerone», non è quello l'importante. Semmai può essere l'alibi per far saltare una trattativa che non convince più sul piano politico (ieri Salvini, paradossalmente, è tornato a parlare di centrodestra, quando il governo nascituro non avrà sicuramente la fiducia di Forza Italia) o perché non ci si incontra sul nome del premier. Argomento problematico, specie quest'ultimo, sul quale, da giorni, si è incagliata la trattativa. Eh sì, perché un nome ha una storia, un profilo, un'immagine. Prevede, insomma, una scelta, che può essere la cartina di tornasole degli equilibri di potere dentro l'alleanza: equilibri che ancora non tornano. Risultato: da giorni si assiste ad un balletto di nomi che sconfina nel comico.

Si è passati dall'identikit di un tecnico, a quello di un politico, per tornare ma la giostra non è ancora finita di nuovo al tecnico. Ad un certo punto è uscito fuori il nome di Giulio Tremonti, ex ministro dell'Economia del governo Berlusconi. Ieri Maurizio Gasparri lo ha chiamato, dando vita ad una gag. «Giulio, in giro si fa il tuo nome, almeno tu sai il congiuntivo», ha esordito Gasparri. «Non ne so niente, ma sarei l'ideale», è stata la risposta all'altro capo del telefono. «Beh, se lo fai lo ha incalzato Gasparri mi nomini tuo successore all'Aspen. Almeno ti spolvero la libreria, aiutato dalla mia colf e ti assicuro che le pago i contributi». Poi, è stato tirato fuori dalla Gabbia, la trasmissione condotta dall'attuale senatore 5 stelle Gianluigi Paragone (ne era ospite fisso), il prof Giulio Sapelli, il quale prima di ritirarsi ha addirittura indicato Domenico Siniscalco ministro dell'Economia. Ed ancora, il professore Giuseppe Conte, membro del Consiglio di Stato finito nella lista dei ministri che Di Maio ha portato al Quirinale prima delle elezioni. «Un amico della Boschi», è il sarcasmo con cui Matteo Renzi ha accompagnato la notizia dell'ennesimo candidato grillino.

Ma a parte questo, le difficoltà sul nome dimostrano che non tutti i calcoli tornano. Il problema è squisitamente politico: Salvini vuole un capo del governo, che lo copra sul versante del centrodestra; Di Maio, esattamente, il contrario, un premier che non faccia arrabbiare gli ortodossi del suo partito, Fico e compagnia. «Sono esigenze contrapposte» osserva Guido Crosetto di Fratelli d'Italia. «Ora Salvini può anche parlare di centrodestra, ma noi siamo contro un governo così». «La verità chiosa Renato Brunetta è che Salvini si sta accorgendo di ciò che perde, la leadership del centrodestra, e non sa ancora cosa otterrà». «Anche se ci fosse Zaia come premier avverte Gianni Letta noi voteremmo contro un governo del genere: il problema è l'alleanza con i 5 stelle».

Ma allora perché Salvini rischia? Qual è la vera posta in gioco? La risposta è quella di Bagnai: il potere. Nei prossimi mesi dovranno essere rinnovati i vertici della Cassa depositi e prestiti, più avanti quelli di società come Simest, Sace, Invimit, Sogei, Consip. Ed ancora, le authority dall'Antitrust a quella sulla regolazione dell'Energia. Poi, il capo della Polizia, il ragioniere dello Stato, i vertici dei servizi segreti. E il prossimo anno i vertici delle società partecipate e controllate dal Tesoro come Enel, Eni, Snam, Leonardo, Enav, Mps, Fincantieri, Terna, Saipem, Italgas.

Un mare di nomine. Lo strumento con cui Salvini tenterà di mantenere il controllo del centrodestra e Di Maio di radicare la sua leadership sui 5 Stelle. Questo è il motore principale di un accordo siglato tra i due all'indomani delle elezioni, se non prima. Un'intesa che due mesi fa Davide Casaleggio, già raccontava così: «Il governo 5 stelle-Lega si farà. Forza Italia avrà tre ministri d'area. Nessun sottosegretario. E troveremo con Salvini un premier condiviso, fino ad allora resterà sul tavolo la candidatura di Di Maio».

Appunto, il potere è la chiave di volta. A cominciare da quei tre ministri vicini a Forza Italia, che vedrete - Salvini sceglierà in prima persona per sottrarre consenso al Cavaliere.

Un'operazione spregiudicata, che forse poteva smontare solo un alchimista del potere come Giorgio Napolitano. «Se io fossi stato nei panni di Mattarella ha confidato il vecchio Nap a qualche amico avrei dato subito il pre-incarico a Salvini. Per metterlo con le spalle al muro. Subito».

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