Il tavolo dei bari

A volte si resta sorpresi per come il lessico misuri con precisione millimetrica il degrado della politica

Il tavolo dei bari

A volte si resta sorpresi per come il lessico misuri con precisione millimetrica il degrado della politica. Ormai il termine «alleanza tecnica» è entrato nel comune linguaggio, come se fosse la cosa più normale del mondo. In sintesi significa: non abbiamo nulla a che spartire sul piano dei programmi e sull'idea di futuro, magari non faremo mai un governo insieme e visto che ci detestiamo sarebbe auspicabile non provarci neppure, ma intanto andiamo alleati alle elezioni per strappare un seggio in più. È una declinazione in peggio della «desistenza», cioè di quella terribile parola che dà il nome all'espediente inventato sempre a sinistra per cui due schieramenti che non possono essere alleati pubblicamente, per non indispettire i rispettivi elettorati, presentano dei candidati farlocchi nei collegi per favorirsi a vicenda. Visto che l'attuale legge elettorale ha trovato il modo per evitare simile astuzia, si è passati all'alleanza «tecnica».

Una volta, ai tempi della Prima Repubblica, un vocabolo del genere sarebbe stato paragonato ad una bestemmia. Oggi, ed è ciò che colpisce, non scandalizza più nessuno. Anzi, si è imposto nei manuali di politica perché sembra una trovata geniale. Peccato che alla fine ne pagherebbero lo scotto i cittadini, che non avrebbero un governo e una maggioranza degni di questo nome. La concezione che possa esistere un'alleanza elettorale «tecnica» è, infatti, il virus che uccide la governabilità. Di più: è il politicismo che allontana i cittadini dalle urne.

Il dramma è che è entrato a far parte della normalità. Enrico Letta può parlare tranquillamente di «alleanze che siamo costretti a fare», lasciando intendere che in tempi normali con certa gente non prenderebbe neppure il caffè. Pierluigi Bersani rilancia, vorrebbe arruolare altri nell'armata Brancaleone della sinistra, mette in guardia dal rischio che lasciando fuori Conte potrebbe scapparci la sconfitta. Quello che importa, appunto, è strappare un deputato o un senatore all'avversario ma senza alcuna finalità ideale, perché in questa logica il governo del Paese è l'ultimo dei pensieri. È un tema marginale.

È proprio questa filosofia che partorisce i mostri, perché se ti puoi alleare con chiunque, al di là dei programmi e dei valori che interpreti, puoi anche mettere in piedi governi contro natura o che non stanno in piedi. Nella legislatura che si chiude, abbiamo avuto prima un governo giallo-verde con dentro grillini e leghisti. E poi un governo giallo-rosso con il «mix» piddini e 5stelle. Cioè due governi agli antipodi. Solo grazie allo stellone del Belpaese siamo sopravvissuti. E alla fine, è naturale che per mettere una toppa alle contraddizioni dell'alleanza «tecnica» e per governare sei stato costretto a ricorrere al «governo tecnico», a Draghi. Tecnica chiama tecnica e sparisce la politica.

E poi ti meravigli se in dieci anni hai avuto due governi tecnici, l'espressione ricorre, (Monti e Draghi) e neppure un premier eletto.

È ovvio: in fondo un'alleanza «tecnica» equivale a barare, metti insieme ciò che non potrebbe stare insieme sul piano elettorale e nascondi questa operazione con un collante ideologico, dal rischio autoritario all'invasione dei barbari. Ma bari anche nei confronti degli elettori e nel gioco democratico. E di fatto sostituisci la politica con un suo surrogato.

Naturalmente «tecnico».

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